Circolarità, per la moda la strada è lunga ma ricca di opportunità
Nonostante “sostenibilità” sia uno dei termini più pronunciati, letti e ascoltati nell’industria della moda, la sua traduzione in realtà è ancora scarsa: il tessile, per esempio, genera ancora fra il 2 e l’8% delle emissioni globali di gas serra, consuma 215 trilioni di litri d’acqua ogni anno e rilascia il 9% delle microplastiche presenti negli oceani. Eppure, una trasformazione netta e convinta verso un nuovo modello circolare potrebbe generare un valore di 700 miliardi di dollari entro il 2030 (secondo Ellen MacArthur Foundation) e ogni aumento percentuale del tasso di circolarità dell’industria determinerebbe un calo di emissioni di 13 milioni di tonnellate di CO2 equivalente (dato McKinsey), generando un vantaggio per il pianeta e opportunità per le aziende. Ma la strada per abbandonare il fallimentare (almeno dal punto di vista ambientale) modello lineare è ancora lunga.
A sostenerlo è l’edizione 2024 del Circular Fashion Index di Kearney, società di consulenza internazionale con sede a Chicago: prende in esame 235 marchi globali (il 20% in più rispetto alla precedente edizione) di cinque categorie (moda, outdoor, sport, underwear e lingerie, calzature) e provenienti da 18 Paesi, giudicandone sette criteri di attività riguardanti sia il pre che il post consumo, dall’adozione di principi di ecodesign alla disponibilità di servizi di riparazione per i clienti.
Il punteggio medio dei marchi è di 3,20 su 10, dunque ancora molto basso e soprattutto sostanzialmente invariato rispetto al 2023. Non che i marchi siano immobili, ma nonostante le buone performance di quelli della top ten (molto eterogenei, dal campione Patagonia a Ovs, da Levi’s a Gucci, unico marchio del lusso presente nelle più alte posizioni), le buone pratiche sono ancora poco diffuse.
La maggior parte dei marchi più virtuosi dal punto di vista della circolarità si collocano nella fascia premium luxury e mass market, mentre le performance peggiori appartengono al fast fashion, pur se esistono casi di miglioramento, come dimostra il recente ampliamento internazionale della piattaforma di capi preowned (usati) di Zara. Fra i Paesi presi in considerazione l’indice di circolarità non definisce dei primati, con punteggi fra l’1,8 dell’India e il 3,7 del Giappone, con l’Italia che si ferma a 3: «Purtroppo tutti i Paesi di provenienza dei marchi sono accomunati da un punteggio mediamente basso, anche se in Europa, per esempio, la Francia (che ottiene 3,6) è sempre pionieristica sulle tematiche di sostenibilità, e in tutti i settori», commenta Dario Minutella, partner di Kearney Italia.
Dal report emerge anche un appello a investire su tutte le fasi di vita del prodotto, ma anche sull’educazione dei consumatori, altrettanto cruciale: per esempio, rendendoli consapevoli che la “naturalità” delle fibre non è un valore assoluto. Come ha confermato una ricerca condotta dal Perlab di Kearney, la produzione del cotone non organico, per esempio, consuma più suolo e acqua di quella del poliestere, che però rilascia più emissioni. E a rendere ancor più urgente la diffusione di una corretta informazione fra chi acquista è anche questo dato: un capo viene usato il 36% in meno prima di essere gettato rispetto a 15 anni fa. «Il mondo del post consumo offre un nuovo modello di business – dice Minutella –. Perseguire un modello circolare offre anche un’opportunità ai marchi, per esempio quella di aumentare il traffico nei negozi offrendo servizi di riparazione e la vendita di prodotti second hand. Al di là di questo, uno dei primi ostacoli alla transizione è che né i marchi né i loro fornitori sono oggi obbligati a rendere conto delle loro attività in ambito di sostenibilità. Questo però cambierà nei prossimi anni, grazie anche alle nuove normative europee come la Corporate Sustainability Reporting Directive e il regolamento sulla progettazione ecocompatibile, una pietra miliare verso un’industria della moda davvero sostenibile».
Fonte: Il Sole 24 Ore