Codice di condotta, le incognite di un modello troppo rigido

La cooperative compliance è spinta dalla riforma fiscale, che ha introdotto maggiori benefici, su tutti lo scudo penale per la dichiarazione infedele. Resta tuttavia un grande lavoro da fare sul funzionamento in concreto dell’istituto e sul contenimento degli oneri che porta con sé. Andrebbe ripensato il Codice di condotta approvato con dm 29 aprile 2024, redatto con un sorprendente piglio prescrittivo, quasi da norma primaria, tale da ingenerare il dubbio circa la sussistenza di ulteriori obblighi per i contribuenti (invero così non dovrebbe essere, non potendo il Codice andare extra legem). Meglio forse sarebbe stato un Protocollo con delle semplici indicazioni, perché se l’idea (comprensibile) era quella dei codici di comportamento dei dipendenti pubblici, il risultato che si è ottenuto va in una direzione diversa.

Fa discutere peraltro la sottoscrizione del Codice da parte delle aziende, in teoria prevista per questi giorni. Si tratta di un obbligo che andrebbe rimosso, non essendo chiaro né il soggetto firmatario, né il significato della firma stessa. Meglio concentrare gli sforzi nel delineare, modificando il Codice o lavorando sulle emanande istruzioni sulla standardizzazione del tax control framework/Tcf (che è il tassello che manca, unitamente al decreto sui soggetti certificatori), delle linee guida concrete. In primis pensando all’integrazione tra i sistemi di controllo interno, ovvero al coordinamento del Tcf con il Modello 231, con quello ex L. 262/2005, cruciale sia per i controlli, sia ratione materiae, essendo questo finalizzato a garantire l’accuratezza dei dati contabili oggetto anche della certificazione del Tcf, e con l’Aeo.

L’altra area su cui lavorare è quella della “governance” delle funzioni fiscali dei gruppi. È importante l’indipendenza dei c.d. Tax risk officer, i quali dovrebbero avere un riporto, quanto meno funzionale, diverso rispetto a quello del responsabile fiscale. È pure ipotizzabile la creazione di un ente ad hoc, anche con membri esterni, sulla scorta di quanto accade per il Modello 231. L’assetto del dipartimento fiscale e l’individuazione delle responsabilità dei vari organi (dipartimento stesso, Cda, Tax risk officer, ecc.), nell’adottare la strategia fiscale, nell’implementare il Tcf, nell’eseguire gli adempimenti e nel definire le modalità di interazione con la funzione che presidia la materia, sono decisivi per una buona governance aziendale.

Ciò tenendo in considerazione che ogni azienda ha le sue specificità, quindi, nonostante le best practice siano cruciali (quanto meno per individuare dei requisiti minimi), è sempre opportuno che vengano lasciati margini di personalizzazione. Centrale è poi ragionare sui confini del contraddittorio e del diritto al dissenso del contribuente. Il regime deve migliorare in termini di effettività del contraddittorio. Per questa ragione, peraltro, abbiamo proposto l’introduzione di una authority terza chiamata a comporre le divergenze di vedute o, anche allo stato della legislazione vigente, un meccanismo interno all’Agenzia per meglio valutare le ragioni del dissenso del contribuente.

Fonte: Il Sole 24 Ore