come cambiano le professioni in Italia”

come cambiano le professioni in Italia”

Anno nuovo, discussione “vecchia”. Dell’impatto dell’intelligenza artificiale (e di quella generativa in modo particolare) sul mondo delle professioni si è parlato e scritto già moltissimo negli ultimi dodici mesi ma il tema è tutt’altro che superato. Anzi. Ed è quindi interessante fare luce sulla percezione che i lavoratori italiani hanno di questa tecnologia cosiddetta “trasformativa” (e sulle modalità che ne caratterizzano l’utilizzo) e proviamo a farlo attraverso uno studio pubblicato lo scorso settembre da Boston Consulting Group (“Decoding Global Talent 2024: How Work Preferences Are Shifting in the Age of GenAI”), frutto d un sondaggio condotto su 150mila addetti tra i 20 e i 40 anni in 188 Paesi, Italia compresa. Il rapporto, nello specifico, ha analizzato l’evoluzione delle preferenze lavorative di soggetti in una fase iniziale o intermedia della propria carriera e ha cercato di rispondere alle domande più frequenti che agitano i pensieri dei manager, dal livello di reale utilizzo di questi strumenti agli effetti aspettati dalla loro implementazione a supporto delle attività quotidiane fino al modo in cui influenzeranno le priorità dei talenti in cerca di nuove opportunità professionali.

Ebbene, la maggior parte degli addetti ha confermato di non temere di essere sostituiti dall’intelligenza artificiale: il 25% dei rispondenti su scala globale e il 26% in Italia, più precisamente, ritiene che l’AI non influirà sul proprio lavoro mentre solo il 5% e il 7%, rispettivamente, è dell’idea che diventerà obsoleto. Il 49% del campione globale, invece, prevede che alcuni aspetti delle loro professioni cambieranno, richiedendo lo sviluppo di nuove competenze. I lavoratori nelle economie emergenti, in quest’ottica, mostrano una maggiore consapevolezza (rispetto ai colleghi dei mercati più maturi) circa la potenziale perdita o trasformazione significativa dei lavori e diverse sono anche le opinioni espresse dagli intervistati rispetto alla funzione svolta: chi opera nell’ambito dei servizi finanziari, del design e del customer service è più propenso a prevedere cambiamenti nel proprio ruolo rispetto a lavoratori con compiti sociali e manuali. L’età e la specifica posizione ricoperta in azienda giocano a loro volta un ruolo importante: i rispondenti fino ai 30 anni presentano i tassi di adozione più elevati della tecnologia (e il 49% di loro la utilizza regolarmente) mentre le persone con incarichi in area digitale e informatica sono (comprensibilmente) le più propense a essere fruitori regolari dell’intelligenza artificiale, seguite da chi lavora nel marketing, nei media e nel design.

Il 40% dei lavoratori italiani non ha ancora sperimentato l’Ai

Se guardiamo all’utilizzo regolare di strumenti come ChatGPT e simili o altre soluzioni di produttività intelligente sul lavoro, in testa alla classifica mondiale svettano i Paesi a basso reddito (India e Pakistan in testa) mentre i dieci con il minor impiego si trovano principalmente in Medio Oriente e in Europa. E l’Italia? Appartiene a questo secondo cluster, con solo il 21% degli intervistati che dichiara di aver già adottato in modo strutturato queste tecnologie. Il 40% dei lavoratori della Penisola, e questo è forse il dato più eclatante dello studio relativamente al nostro Paese, non ha ancora sperimentato in alcun modo le funzionalità dell’AI, anche se il 63% si dice disposto a intraprendere percorsi di re-skilling per apprendere nuove competenze e rimanere competitivo (la percentuale di addetti interessati a formarsi su questi temi scende su scala globale al 57%).

Ma come vanno letti questi indicatori dal management? A precisa domanda, Matteo Radice, Managing Director e Partner di BCG in Italia, ha osservato come il dato relativo all’utilizzo «potrebbe indicare una sottovalutazione dell’impatto dell’AI, legata alla scarsa consapevolezza delle trasformazioni che questa tecnologia può portare o a un senso di sicurezza nei propri ruoli attuali. Chi sottovaluta l’intelligenza artificiale rischia però di perdere un’opportunità, poiché questo cambiamento non è necessariamente negativo, anzi, e può amplificare i risultati e aiutare i lavoratori a raggiungere più facilmente i propri obiettivi». Dal punto di vista delle risorse umane e di chi gestisce programmi di innovazione, si è arrivati a un punto di svolta cruciale: l’indicazione che arriva da BCG è in tal senso quella di una maggiore sensibilizzazione e comunicazione interna sul potenziale reale dell’AI e sulle trasformazioni che introdurrà in molti settori. E i due terzi circa dei lavoratori che si dicono già pronti al reskilling confermano una forte apertura all’apprendimento e rappresentano un’opportunità strategica per le aziende che vogliono restare competitive nel futuro mercato del lavoro. «In questo contesto – ha sottolineato Radice – gli HR manager devono assumere un ruolo proattivo nell’informare e formare le persone, anche su competenze trasversali come problem solving e utilizzo di tecnologie innovative, ed è essenziale offrire una visione chiara dell’evoluzione dei ruoli, con esempi pratici di come l’AI possa automatizzare alcune attività e migliorarne altre».

Più anziani, più preoccupati

Tornando alla ricerca, è interessante notare in proposito come chi ha un livello di istruzione basso o medio, in generale, tenda ad essere più flessibile rispetto ai lavoratori più istruiti, mentre le persone più anziane sono generalmente meno aperte alla riqualificazione. Le aziende, di conseguenza, sono sin d’ora chiamate a quantificare come le nuove tecnologie influenzeranno il bisogno di (nuovi) lavoratori e di (nuove) competenze e a confrontare le loro valutazioni della domanda di professionalità legate all’AI con una previsione dell’offerta effettiva di talenti, considerando età di pensionamento e turnover. Non in ultimo, qualsiasi organizzazione deve quindi creare i presupposti per innescare un circolo virtuoso che la renda più attrattiva per questi talenti, facendo dell’intelligenza artificiale generativa una risorsa di valore. Un circolo virtuoso fra talenti, competenze e Gen AI, secondo Radice, è però possibile solo «quando un’organizzazione abbraccia una visione strategica di lungo termine, e quindi quando gli investimenti non sono destinati solo all’adozione di nuove tecnologie innovative, ma anche nella formazione continua dei propri dipendenti. La formazione sull’AI generativa trasmette un messaggio chiaro sia ai dipendenti attuali che ai potenziali nuovi assunti ed è quello che l’azienda è proattiva e impegnata a fornire ai propri collaboratori gli strumenti per rimanere al passo con i cambiamenti tecnologici, per migliorare l’efficienza, per ridurre il tempo dedicato a compiti ripetitivi e per concentrarsi di conseguenza su attività strategiche a maggior valore aggiunto».

Fonte: Il Sole 24 Ore