Come le Collezioni d’Azienda Rafforzano il Legame con il Territorio e la Comunità”

Per tutti e duratura nel tempo

Apertura alla comunità e condivisione della cultura del lavoro sostenibile sono al centro dello spazio espositivo di Fondazione Gi Group, inaugurato a inizio anno con una mostra sull’astrattismo. I lavori esposti, destinati a cambiare annualmente in base al tema, sono una cinquantina, ma l’intera collezione di Gi Group ne conta 600. «È stato un mix di passione, investimenti e volontà di comunicare il contemporaneo – racconta Chiara Violini, presidente di Fondazione Gi Group -. Già da tempo come regalo di Natale ai dipendenti distribuivamo una pubblicazione d’arte attinente al tema del lavoro, all’imprenditoria vista come la costruzione di una cattedrale: per tutti e duratura nel tempo. Poi con il Covid e la necessità di raccontare quello che stava accadendo abbiamo lanciato Contagi d’Arte, rassegna di workshop e incontri, per darne infine forma concreta con uno spazio dedicato a esposizioni annuali curate da Casa Testori».

Il feedback interno è stato subito positivo, ma fin dall’inizio la volontà è stata quella di aprirsi all’esterno. «Tutti dipendenti hanno visto la mostra – prosegue Violini -, ma consapevoli dello straordinario potere di irradiazione dell’arte, abbiamo deciso di aprire le porte anche alla collettività e alle scuole, per sensibilizzare su temi per noi fondamentali come il benessere, il miglioramento di sé e la sostenibilità del mondo del lavoro, valori che abbiamo visto dialogare molto bene sopratutto con le generazioni più giovani».

4 mila visitatori

Dialogare con la comunità funziona, e se portata avanti può portare a risultati significativi. Come i 4 mila visitatori l’anno del Campus Reti, un ex-cotonificio nelle cui strutture industriali ha sede Reti, società benefit di consulenza informatica. Qui si trova anche parte della Collezione Paneghini, nata – quasi per caso – dalla passione del fondatore Bruno Paneghini. «Con mia moglie ci siamo trovati a un’asta e ci siamo innamorati di un’opera di un artista americano. Mille euro più o meno. Dovevamo arredare casa, è stato il primo quadro che abbiamo appeso. All’epoca non lo sapevamo ma l’autore era amico di Keith Haring. Da lì non ci siamo più fermati, abbiamo iniziato a studiare, leggere – abbiamo una biblioteca di 2.800 testi che dialogano con la collezione -, e a un certo punto, mentre stavamo recuperando questi spazi dell’ex cotonificio, abbiamo pensato di portare l’arte in azienda, anche perché il nostro mondo, quello dell’It, può apparire molto freddo».

Oggi la collezione conta 350 opere, ma l’inserimento nel luogo di lavoro è andato per gradi. «L’artista a cui abbiamo chiesto consiglio ci ha detto di non mettere subito arte troppo colorata, di iniziare con un basso profilo. All’inizio non è semplice perché il dipendente non sempre capisce il motivo… poi piano piano abbiamo inserito altre cose, arte cinetica, pittura. Ora c’è di tutto. Anche le dimensioni sono cambiate, prima non potevamo acquistare opere grandi, ma ora avendo lo spazio possiamo sbizzarrirci».

Si inizia con un budget basso, per poi arrivare a 20, 25 mila euro. Cifre che, pur sembrando alte, per gli esperti del mercato sono la normalità. Ma acquistare a prezzi bassi non sempre è sconveniente: «Noi abbiamo preso due opere di Salvo a 5 mila euro, oggi ne valgono anche 70 mila. Il mercato dell’arte è così, cambia in continuazione, e secondo me non sempre ha senso seguirlo pedissequamente. La cosa bella non è pagare tanto ma andare a cercare quegli artisti meno conosciuti o abbandonati. L’importante insomma è che l’opera piaccia, a prescindere da tutto. Anche perché comprare arte ha un suo costo, abbiamo un Iva altissima, al 22%, siamo l’unico Paese. Ed è un problema, perché aumenta il sommerso».

Fonte: Il Sole 24 Ore