Compagno violento via da casa anche se la vittima assicura che è cambiato
La priorità è difendere le donne che subiscono violenza. E vanno tutelate anche contro la loro volontà. Partendo da questo principio, la Cassazione ha accolto il ricorso del Pubblico ministero contro la revoca delle misure cautelari imposte, per il reato di maltrattamenti in famiglia e lesioni aggravate dall’uso di un’arma (un coltello), nei confronti del compagno convivente. Con un primo provvedimento il Tribunale aveva stabilito una serie restrizioni per l’indagato: l’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria, di allontanarsi dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento o di comunicazione con la persona offesa.
I gravi indizi
Esigenze cautelari giustificate dai gravi indizi di colpevolezza a suo carico per tutti i delitti addebitati. Accuse fondate proprio sulla querela della vittima, madre di una bambina di pochi mesi, sui suoi racconti di un anno di violenze, su quelli della sorella di lei, oltre che sulle riscontrate lesioni. Dichiarazioni che il Tribunale aveva considerato attendibili, salvo poi – in maniera contraddittoria ad avviso del Pm – revocare le misure cautelari considerando, allo stesso modo, attendibili le affermazioni della donna che descriveva un uomo nuovo. “La persona offesa – si legge nella sentenza – aveva riferito di aver voluto tornare a vivere con il compagno, che aveva dimostrato di essere cambiato e “di aver preso coscienza delle condotte contestate”: di talché poteva ritenersi cessata “quella conflittualità tra le parti” che aveva determinato la consumazione degli illeciti in parola”. Da qui la marcia indietro sulle restrizioni, da parte del Tribunale che aveva confidato nel ritorno tra i due alla “piena normalità”. La Suprema corte aderisce però alla tesi del Pm, secondo il quale non si poteva passare un colpo di spugna su un quadro indiziario che disegnava una situazione di totale soggezione della donna al suo compagno, descritto dal lei stessa come un uomo geloso al punto, da offenderla verbalmente e picchiarla, procurandogli lesioni che più volte aveva evitato di farsi refertare, per paura di ritorsioni.
Un anno di violenze
Violenze, avvenute malgrado la presenza della figlia minore, che erano culminate con un’aggressione per la strada, dove era stata percossa e ferita alla mano con un coltello. Racconti che avevano già indotto il Tribunale e considerare non credibile una prima ritrattazione e poi, “illogicamente”, a prendere per buona la seconda. Il Tribunale aveva creduto alla riconciliazione e alla fine dei conflitti, considerando “non più attuale il rischio che l’indagato tornasse a commettere reati della stessa natura”. Questo anche a fronte della volontà della parte lesa di riaccogliere il compagno in casa, sminuendo la portata delle precedenti accuse e descrivendo una situazione del tutto pacifica. Lo stesso indagato si era presentato dai carabinieri e aveva telefonato in caserma, per sottolineare la remissione della querela e avvertire che c’era una ritrovata “armonia”. Una pax in virtù della quale aveva anche chiesto di dare un taglio alle ulteriori indagini su di lui. La Suprema corte si fida meno. Annulla l’ordinanza di revoca della misure cautelari e invita il Tribunale ad un nuovo giudizio che sia più critico, meno fiducioso nel “mutato atteggiamento” verso la donna e tenga anche presente le indicazioni date dalla Consulta con la sentenza 173 del 4 novembre 2024.
La priorità è la tutela della vittima
In quell’occasione il giudice delle leggi, nel giudicare non fondate le questioni di legittimità costituzionale del nuovo Codice rosso, ha chiarito che le scelte del legislatore nei reati contro vittime vulnerabili prevedono rigidi criteri. E rispondono ad un ragionevole bilanciamento tra valori in tensione: la libertà di movimento dell’indagato e l’incolumità fisica e psicologica della persona minacciata. Un bilanciamento coerente con la direttiva Ue 2024/1385 sulla lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica e in linea con la Convenzione di Istanbul resa esecutiva in Italia con la legge 77/2013. Per la Consulta va data “priorità alla sicurezza delle vittime o delle persone in pericolo”. Un insegnamento – avverte la Cassazione – che il tribunale non ha seguito. Malgrado una relazione nettamente squilibrata tra l’indagato e la vittima, sono mancate maggiori verifiche sulla reale situazione. La peculiare vicenda era tale da giustificare l’applicazione delle misure cautelari, per garantire l’incolumità della persona offesa dal reato “anche contro la sua volontà”. Come dire che a volte le donne vanno difese anche da loro stesse.
Fonte: Il Sole 24 Ore