Con Omoda & Jaecoo, Chery accelera la fase di espansione internazionale

WUHU (CINA) – Nello stabilimento Chery di Wuhu, città-brand del gruppo automobilistico cinese (vale il 25% del Pil locale), colpiscono il silenzio, la pulizia, la distanza delle postazioni di lavoro, le facce giovani degli addetti. L’età media dei dipendenti è 19 anni. Il livello di tecnologia e automazione è nei numeri: nel capannone in cui vengono costruite le parti di carrozzeria, gli addetti sono cento e i robot 370. All’assemblaggio le giovani facce aumentano. Tra le linee viaggiano i robot che portano i pezzi sulle postazioni. Da qui esce un’auto al minuto. Con il nostro linguaggio, la chiameremmo fabbrica-modello. Tecnologia, efficienza, sicurezza, operai giovani. I tecnici di Chery la chiamano superfactory. In Cina, su sette stabilimenti di Chery, ci sono due superfactory. Una terza è in costruzione e una quarta in fase di progettazione. Con i tempi cinesi saranno pronte in un anno. Diventeranno le bocche di fuoco per una politica di espansione internazionale del gruppo supportate anche dagli stabilimenti che verranno costruiti nel mondo, uno in Europa.

A 27 anni dalla nascita, con 25 milioni di vetture vendute, il gruppo Chery è il secondo produttore di auto cinese, ma è il primo nelle esportazioni, con il 47% dei circa 1,8 milioni di veicoli che venderà nel 2025 immatricolato all’estero. Chery è nel pieno dell’espansione internazionale: nel 2024 è primo nella classifica di crescita con un +42% di vendite. Alla convention globale del gruppo di Wuhu, Yin Tongue l’amministratore delegato, e Shawn Xu, il numero uno di Omoda & Jaecoo, il brand a due teste creato per i mercati internazionali, lo sottolineano con forza. Chery è presente in 114 Paesi. Dopo una prima fase di crescita nei Brics e nel mondo non allineato, quello a basso e medio tasso regolatorio (Australia e Nuova Zelanda, Paesi Arabi e Medio Oriente, Paesi dell’ex Unione Sovietica, Sudamerica), adesso sta entrando nel vivo la fase di espansione nel più ostico Occidente.

A primavera scorsa lo sbarco in Spagna, a luglio in Italia e Gran Bretagna. A fine 2024 arriveranno Grecia, Polonia e Ungheria. Nell’estate del 2025 Germania e Francia. Poi gli Stati Uniti, la Corea, il Giappone, i mercati più difficili per regolazione e presenza di competitor. I modelli saranno del segmento B, C e D con il ventaglio delle diverse opzioni di motorizzazione: dall’endotermico puro, all’ibrido nelle varie forme, all’elettrico puro.

I numeri del primo anno in Europa, con due modelli proposti, Omoda 5 (benzina e elettrico) e Jaecoo 7, sono quelli di un classico avvio: ottomila macchine vendute, circa mille al mese di media, più o meno in linea con le 11mila di Sudafrica, Australia, Malesia e Indonesia. In Italia, la media di vendite, è di 500 auto al mese. «L’obiettivo in Europa nel 2025», dice Shawn Xu, «è vendere tremila auto al mese. I primi riscontri su ordini e visibilità del brand sono positivi».

L’attenzione per l’Europa, e per l’Italia, non è solo rivolta al mercato, ma anche alla produzione e ai centri tecnologici e di ricerca. Dopo l’apertura dello stabilimento-cacciavite a Barcellona nel sito ex Nissan, in joint venure con la spagnola EV Motors, il gruppo pianifica l’avvio di uno stabilimento produttivo vero. «Il nostro approccio», dice Shawn Xu, «è la produzione nel mercato per il mercato. In Europa abbiamo bisogno di un secondo stabilimento e di una fabbrica di batterie che supporterà la produzione delle auto elettriche». Lo stabilimento spagnolo, dopo i ritardi iniziali, avvierà le linee a dicembre. «Sono ritardi fisiologici», dice Shawn, «non c’è niente di preoccupante». Mentre sul secondo stabilimento la caccia è aperta. La stessa Spagna e la Turchia sono candidate serissime per le condizioni e le certezze che riescono a garantire. L’Italia è stata analizzata e fondamentalmente scartata per i fattori endemici di debolezza del sistema: alto costo dell’energia e del lavoro, logistica problematica e burocrazia. Rappresentanti di Chery hanno avuto colloqui con il Governo. Sono stati proposti gli stabilimenti di Termini Imerese (scartato soprattutto per il collo di bottiglia logistico) e anche di Grugliasco, ma la risposta è stato un cortesemente cinese «no, grazie».

Fonte: Il Sole 24 Ore