Cop29: è già lite sull’agenda dei lavori. Obiettivo 1.000 miliardi per i Paesi poveri
La congiuntura astrale sulla Cop29 di Baku diventa più avversa ogni giorno. Alle defezioni dei leader politici (von der Leyen, Macron Scholz), si somma l’annuncio dell’uscita (di nuovo) degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, che toglie peso al negoziatore americano, John Podesta.
Effetto Trump
Durante il primo mandato Trump, gli investimenti nelle rinnovabili non si fermarono negli Usa ed è probabile che non lo faranno nemmeno nei prossimi quattro anni. Una frenata pesante arriverebbe con la revoca dei sussidi erogati dall’Inflation Reduction Act, provvedimento simbolo dell’Amministrazione Biden, che Donald Trump vuole cancellare. Ma il business sa trovare la sua strada, se c’è redditività, e i parlamentari repubblicani dei distretti che ricevono quei soldi sono già pronti a fare muro.
Per i vertici sul clima i contraccolpi sono rilevanti. L’Europa perde una sponda di peso nei negoziati con la Cina e con i produttori di combustibili fossili. Peraltro, il suo Green Deal è sotto esame in casa, sotto le pressioni dei partiti conservatori. Pechino, prima al mondo e con distacco per gas serra, potrà farsi passare per la potenza più impegnata sul fronte della transizione energetica, nella quale investe più di tutti. Sosterrà che non le si può chiedere di rinunciare al carbone e allo stesso tempo tagliare i sussidi all’industria green, come fanno Washington e Bruxelles, per esempio con i dazi sull’auto elettrica.
Negoziato in salita
A Baku, perfino la definizione dell’agenda delle trattative è snervante. L’Unione Europea e i piccoli Paesi insulari chiedono di dare seguito all’accordo del 2023, che sanciva l’impegno un po’ vago ad «allontanarsi» dall’uso di petrolio e gas, oltre che del carbone. I petro-Stati invece vogliono limitare le discussioni al tema della finanza per il clima. Lo stesso Azerbaijan, che ospita la Cop29, è un grande produttore di petrolio e gas.
Archiviata la cerimonia di inaugurazione, ieri sera, parte la sfilata dei capi di Stato e di Governo. Uno degli obiettivi principali dei negoziati, che dovrebbero chiudersi il 22 novembre, è trovare un nuovo accordo sugli aiuti (fino a mille miliardi di dollari l’anno, dai cento attuali) ai Paesi poveri, i più fragili in termini di infrastrutture e resilienza, e quindi i più esposti al cambiamento climatico, al quale meno di tutti contribuiscono. La Cina, l’India (altra grande inquinatrice) e il Brasile faranno a gara per farsene portavoce, nonostante siano latori di interessi che spesso entrano in conflitto.
Fonte: Il Sole 24 Ore