Così il jazz si fece classico
No. Non era certo la prima volta che Keith Jarrett si esibiva, nei primi anni 70, in quella spericolata pratica del concerto solo per pianoforte. Anzi. Per chi, già da allora, lo seguiva, la gloriosa Ecm di Manfred Eicher (che aveva inventato un nuovo modo di ascoltare e vedere il jazz, allargandolo a spazi eminentemente nordici o europei, poco fruiti all’epoca, e grafiche spartane e mistiche) aveva messo a disposizione alcuni suoi dischi. E celebrati, intendiamoci. Nel prezioso cimelio che vedete in pagina, che pubblicizza quello che diventerà il più epico concerto di solo-jazz della storia (alle 23!, orario di per sé improbabile e “punitivo”, ma unico disponibile per un concerto di musica non classica, quasi a limitare la profanazione del tempio), i successi del pianista erano rimarcati e i concerti solistici avevano ben già vinto i loro bravi premi della critica.
Eppure, sarà quello, il magnifico episodio d’una notte a Colonia, ad entrare dritto dritto nel repertorio della storia della musica (senza qualificazioni) del Novecento; e non solo. I 50 anni da quella vera e propria “epifania musicale” vengono ricordati per tutto l’anno (film alla Berlinale, altri finanziati con campagne di crowdfounding, una edizione speciale in cofanetto e vinile a fine anno dalla stessa Ecm…) e le celebrazioni sono anche l’occasione per ricordare cosa abbia significato quell’ora di musica toccata dalla grazia, con i primi 26 minuti di folgorante, commovente, scandalosa bellezza delle melodie, degli ostinati, delle fughe e dei ritorni, degli squarci di armoniche nostalgie che ci proiettano in un altrove che è poi il territorio del nostro io più profondo, un’ “auto-terapia” mentale e fisica su suggestioni musicali. Tutto, di quel flusso di coscienza, individuale e collettiva, sui tasti di un Bosendorfer mezzo scassato, è entrato quasi immediatamente nel mito: dall’incipit – Jarrett parte sempre dallo zero assoluto, nel concerto solo (una volta gliene chiese conto addirittura Miles Davis, su come facesse, e lui, di risposta: «Non lo so. Lo faccio e basta») – esemplato mimando lo stacchetto di poche note con le quali la Operahaus segnala di far silenzio ché sta per iniziare la musica, ai mugolii, percepibili, di godimento e sofferenza, di Jarrett, impegnato con tutto sé stesso a suonare, no, ad amoreggiare col piano, canticchiandosi i passaggi (Glenn Gould docet, non a caso), ai movimenti, colpi di piede, inchini sulla tastiera, la folta criniera a un centimetro dai tasti – l’accompagnamento fisico, insomma, all’agire sonoro: uno stato di trance, quasi agonistica, oltre che estetica.
Quella straordinaria performance (che nel jazz aveva pochi precedenti: l’unico è il felpato, ipnotico lentaccio Peace Piece di Bill Evans, sei minuti di delicatezze alla Satie, 1958) si impose, nell’immaginario dei tardi 70 e ben oltre come un tratto, scriviamolo, ché siamo in Germania, dello zeitgeist. Un “tappeto sonoro” che, insieme all’odore e volute d’incenso patchouli (scrisse un critico americano), fu il segno dell’epoca, e che fungeva – oltre gli usi privati e personali (meditazione, pacificazione, petting spinto e magari oltre, fumo, o solo puro godimento musicale analogico) – da indirizzo epistemologico ben preciso per il jazz. Per l’ascolto e la fruizione del jazz, dico. E fu di portata rivoluzionaria, sia per chi con quella musica, basata da sempre sull’improvvisazione, era cresciuto e sognava ancora futuro, sia per chi ne approntava, di lì a poco, derive new age (e di questo, piaccia o no allo stesso Jarrett, le sue esecuzioni furono in parte responsabili; e gli stessi Einaudi e Allevi sono eredi, in qualche modo, di quelle esperienze pianosolistiche primeve).
Esiste un magnifico libro, Horizons Touched. The Music of Ecm, che ho ripreso dallo scaffale per questa occasione e che introduce perfettamente al catalogo musicale e al progetto culturale della casa tedesca: lì c’è un intervento dello stesso Jarrett che medita su come avvenivano quei concerti (individua tre categorie da lui impersonificate: il compositore, l’esecutore pianista e l’ascoltatore mentre suona, e come esse interagiscono) o uno studio approfondito di Peter Edelson su quel magico concerto e disco doppio (oltre 4 milioni di copie vendute, record insuperabile per un jazz assolo); e lo stesso articolo oggi qui in prima pagina di Ricciarda Belgiojoso, che ha la fortuna di capire “dall’interno” cosa stia avvenendo sulla tastiera: non mi avventuro nemmeno su questi, per me insondabili, territori. Rimando ad essi, per chi volesse approfondire.
Ma di sicuro i concerti solisti di Jarrett – è fenomenologia della cultura –, hanno cambiato significativamente la nostra comprensione e attitudine al jazz. Il modo di suonare, prima di tutto, che (ri)porta il jazz verso l’acustico quando, Miles capofila, si provava ad avvicinarlo al rock o al pop. La scoperta, poi, del fatto che il pianoforte solista fosse un’idea commercialmente praticabile (anzi, che c’era un pubblico considerevole disposto a prendere sul serio tali esecuzioni e dischi), mentre il jazz si teneva in genere lontano dal solo (c’era l’eccezione di Mingus Plays Piano del 1963, lo so), con la conseguenza che le case discografiche inondarono i negozi di dischi per pianoforte solo (pochi i buoni, molti i pessimi). E, soprattutto, il fatto, epocale, che a partire da quegli anni, il pubblico del jazz si allontanava dall’elettronica per decretare che il jazz fosse soprattutto arte acustica, più o meno nello stesso modo in cui il pubblico comune accettava (amava o subiva) la musica classica.
Fonte: Il Sole 24 Ore