CreaSì sotto i riflettori grazie a Trump, ma il distretto carpigiano è in crisi

CreaSì sotto i riflettori grazie a Trump, ma il distretto carpigiano è in crisi

Il clamore inatteso per l’abito “Made in Carpi” indossato da una rockstar internazionale davanti a milioni di spettatori di tutto il mondo e la fiammata di ordini arrivata online non bastano a riaccendere le luci nel buio della filiera locale della moda, come racconta Gloria Trevisani, titolare di Crea-Sì e presidente di Cna Moda Emilia-Romagna, che con il marchio Opificio Modenese ha firmato il vestito scelto dalla cantante country Carrie Underwood per l’esibizione all’insediamento di Donald Trump. «È stato un colpo di fortuna che un’icona con milioni di follower abbia scelto un nostro capo – riconosce – ma dietro questo momento di visibilità c’è una realtà ben più complessa». Quella di una filiera della moda regionale – e non solo – che fatica a tenersi in piedi tra calo della domanda, difficoltà di internazionalizzazione e problemi di liquidità.

L’alta gamma soffre quanto il fast fashion

Crea-Sì è una piccola azienda con oltre trent’anni di esperienza alle spalle (nasce nel 1989 come Cut Service) che opera nella progettazione, nella modellistica e nella prototipia, con una piccola parte di produzione di alta gamma a marchio Opificio Modenese che veste la donna con tessuti innovativi e sostenibili che non si stirano, come i “Sensitive fabrics” brevettati da Eurojersey: «La domanda è in calo a doppia cifra – precisa Trevisani – anche i brand del fashion per cui lavoriamo sono molto più cauti a fare prototipi e campionari, e quindi ordini. Se prima facevano ore di straordinari a ridosso delle sfilate e del lancio di nuove collezioni, ora chiudiamo la settimana senza alcuna spinta. Arrivano progetti da chiudere in fretta e poi abbiamo buchi di giorni, non c’è più continuità di lavoro e quindi di flussi di liquidità, lavorando a singhiozzo». Se nella parte di cartamodelli e prototipi la flessione di lavoro è del 20-25%, nella produzione interna (seppur minoritaria sul fatturato, il calo è del 30 per cento. «E parliamo di seta, tessuti pregiati e 100% Made in Italy, un prodotto di qualità, ma come noi soffrono il lusso e pure il fast fashion: se prima un cliente comprava dieci capi l’anno, oggi ne compra tre o quattro», spiega la titolare, appena rientrata da New York.

Internazionalizzazione: Pmi frenate dai costi

Una delle chiavi per sopravvivere alla contrazione della domanda è l’export, ma qui emergono altri ostacoli per piccole imprese costrette a misurarsi con mercati globali. «Abbiamo uno showroom a New York che rappresenta una trentina di marchi, di cui metà italiani, tra cui la nostra capsule di 40-50 capi – racconta Trevisani -. Facciamo due campagne vendita l’anno e gli ordini arrivano, poi facciamo la produzione e inviamo ai clienti e anche con la logistica oltreoceano ce la stiamo cavando, pur essendo una piccola realtà di 17 persone in Crea-Sì. Il problema non sono i dazi statunitensi, che già ci sono sui nostri prodotti e vanno dal 15 al 30%, e speriamo che Trump non li aumenti, ma il fatto che per affrontare i mercati esteri e partecipare a fiere servono risorse umane e finanziarie».

Fondi pubblici e lungaggini burocratiche

I bandi per l’internazionalizzazione esistono, dalla Regione Emilia-Romagna all’Agenzia-Ice, ma spesso non forniscono risorse in tempi utili. «Abbiamo partecipato a una fiera estera grazie a un bando regionale, rendicontato tutto nel 2023, e i soldi sono arrivati solo a inizio 2025. E i tempi sono questi anche quando si parla di investimenti in digitalizzazione e transizione green: senza anticipi o un meccanismo di voucher le piccole aziende, fondamentali per salvare la moda Made in Italy, non possono affrontare investimenti perché non hanno le forze per restare scoperte anni e chi compra oggi non è disposto a pagare di più perché il nostro prodotto è sostenibile. Il valore aggiunto del Made in Italy viene dato per scontato, ma ha costi alti», rimarca l’imprenditrice mettendo il cappello di presidente Cna Moda regionale

La crisi dei laboratori e la scommessa di Osaka

Le difficoltà nel distretto carpigiano si misurano quotidianamente: «Quasi ogni giorno vengono da me italiani, cinesi e indiani dei piccoli laboratori qui attorno a chiedermi se abbiamo lavoro. Noi cerchiamo di non perdere i nostri fornitori storici, diamo la priorità a loro, ma la situazione è davvero buia», conclude Trevisani, senza perdere però l’ottimismo. Perché le opportunità ci sono, e sono all’estero, ma i costi di accesso ai mercati internazionali e la lentezza dei contributi pubblici fanno sì che siano quasi impossibili da cogliere per le piccole imprese e gli artigiani. E la bussola è tornata a girare anche verso l’Asia, in particolare Giappone e Corea del Sud, dove il distretto di Carpi in passato lavorava assiduamente. La speranza di Crea-Sì e di tante Pmi della filiera emiliano-romagnola è che in occasione di Expo Osaka la Regione riesca a mettere in campo una operazione sistemica e a portare anche l’eccellenza locale del fashion all’attenzione dei potenziali clienti nipponici.

Fonte: Il Sole 24 Ore