Cresce la vendita di vino sfuso: può essere una buona scelta, ma da fare con criterio

Il “vino sfuso” si è sempre venduto ma, al giorno d’oggi, si sta riproponendo un po’ ovunque seguendo un trend che di certo è in forte crescita. Non sono qui per storcere il naso, bensì per approfondire nella maniera più laica possibile e meglio orientarci su un terreno che rischia di diventare più scivoloso che glitterato.
Oggi più che mai, occorre affrontare l’argomento – se non addirittura svolgere il tema – in tempi di conclamata inflazione.

Il trend dei vini sfusi è ufficialmente in espansione. Questo si evince dalle nuove aperture di locali, un po’ ovunque, e dal proliferare di fiere/mercato, festival ed eventi di vario genere.

Un po’ più di educazione sul vino sfuso, pertanto, occorre farla. Parliamoci chiaro: l’opzione dello sfuso può essere una scelta democratica per non spostare la voce “vino” sul conto troppo sopra quella del pasto consumato a tavola. Peraltro può essere utile anche in una visione casalinga in ambito familiare o di coppia, visti i rincari degli ultimi anni che non ci permettono di mangiare fuori tutti i giorni.

Dunque: c’è sfuso e sfuso. Quello industriale (vino in brick) non mi interessa, mentre quello artigianale può avere un senso e, comunque sia, riguarda un certo tipo di pubblico che non si può permettere l’imbottigliato ed etichettato di un determinato artigiano.

Sicuramente, così facendo si opera una scelta – che in fondo rispecchia una delle forti tradizioni italiane a tavola – affidandosi a un minimo di regole e garanzie: ovvero a un vino tutt’altro che esiguo, ma semplicemente non adatto all’invecchiamento, seppur prodotto con uva buona proveniente da un’agricoltura di riguardo, artigiana e contadina.

Fonte: Il Sole 24 Ore