Dai filtri alle spugne, tecnologie per arginare le microplastiche

Dai filtri alle spugne, tecnologie per arginare le microplastiche

La produzione annuale di plastica nel mondo è decuplicata in cinquant’anni, da 45 milioni di tonnellate nel 1975 ai 450 milioni previsti quest’anno. Circa metà di quanto prodotto finisce ogni anno tra i rifiuti: 220 milioni di tonnellate nel 2024, ovvero 28 chili pro capite, per ogni abitante del pianeta. Meno del 10% di questi rifiuti viene riciclato e circa un terzo (70 milioni di tonnellate nel 2024) finisce disperso nell’ambiente. Tra i 10 e i 40 milioni di tonnellate l’anno, secondo le stime più accreditate, si trasforma in microplastiche, ovvero frammenti di plastica delle dimensioni da 1 nanometro a 5 millimetri.

Cosa sono le microplastiche

Sono passati vent’anni dalla prima comparsa di questo termine, coniato nel 2004 da Richard Thompson, un biologo marino dell’università di Plymouth, per descrivere frammenti microscopici di detriti di plastica trovati in ambienti costieri britannici e americani, identificati come acrilico, poliammide (nylon), polipropilene, poliestere, polietilene e polistirene. In questi vent’anni i ricercatori hanno capito che le microplastiche sono ovunque, dall’aria che respiriamo all’acqua del rubinetto, e si sono ormai insediate stabilmente anche nel corpo umano: se ne trovano tracce in tutti gli organi, compresi cuore e cervello.

L’inquinamento da microplastiche deriva dalla frammentazione progressiva di plastiche più grandi già presenti nell’ambiente (microplastiche secondarie), oppure da elementi emessi su scala microscopica (primarie). L’eliminazione delle macroplastiche non è tecnicamente difficile: basta dotarsi di obblighi e divieti relativi all’uso, al riciclo e allo smaltimento. Le microplastiche primarie, invece, sono ben più complesse da intercettare.

Da dove provengono?

Le sorgenti principali di queste ultime, secondo lo studio di riferimento condotto dagli scienziati dell’International Union for the Conservation of Nature, sono i tessuti sintetici (35%), la polvere di pneumatici derivata dall’abrasione contro l’asfalto (28%) e il cocktail di particolato che chiamiamo polvere urbana (24%), proveniente soprattutto dai cantieri edili con un mix di vernici sintetiche, sabbiature industriali a base di abrasivi, frammenti di rivestimenti artificiali e simili.

Altre sorgenti, meno rilevanti, sono la segnaletica orizzontale sulle strade, i prodotti di igiene personale (gli esfolianti sono fatti al 90% di plastica), gli usi agricoli (ad esempio i granuli di fertilizzanti rivestiti di polimeri per il rilascio nel corso di diversi mesi) e le perdite accidentali di granulato di plastica (la base della produzione di plastiche) lungo la catena logistica.

Fonte: Il Sole 24 Ore