Dalla Danimarca alla Spagna, ecco l’Europa dei quartieri ghetto
Le contraddizioni e i paradossi della legislazione non sembrano però toccare particolarmente l’opinione pubblica danese. Da qui, secondo Bakkær Simonsen, l’importanza della sentenza: «Se la Corte decidesse che si tratta di una violazione dei diritti umani e del principio di antidiscriminazione – conclude – credo che questo darebbe una nuova prospettiva a queste politiche, che non vengono più messe in discussione, almeno nel dibattito tradizionale, ma sono accettate come necessarie o legittime».
Dalla Francia alla Spagna, la prevenzione del «rischio ghetto»
Il dibattito sull’argomento non è un’esclusiva della Danimarca, con casi e politiche affini sperimentati nel resto d’Europa. Il comune denominatore resta quello di evitare, appunto, il crearsi di bolle urbane che vengono classificate come ghetti su base etnica, reddituale o entrambe. Già nel 2022 il ministro dell’Immigrazione svedese, Anders Ygeman, si era espresso contro le aree popolate da residenti sprovvisti di «origini nordiche», ipotizzando un tetto del 50% sulla concentrazione di cittadini di origine immigrante nelle cosiddette «aree problematiche». In Francia si discute da anni sulle politiche di contrasto all’eccessiva omogeneità sociale (ed etnica) di determinati quartieri, una battaglia sposata anche dall’ex prima ministra macroniana Elisabeth Borne con la proposta di dislocare le famiglie a basso reddito nei quartieri più ricchi. In Germania, nel 2020, una richiesta avanzata dalla forza di destra radicale Alternative für Deutschland aveva costretto le autorità della Renania Settentrionale-Vestfalia a pubblicare una lista di 44 zone «ad alto rischio» nel Land. Nella quasi totalità si trattava di zone con un’alta densità di residenti immigranti, concorrendo a quella classificazione etnica che ha suscitato le contestazioni della Corte di giustizia Ue.
Un altro caso di interesse arriva dalla Spagna. Nel 2024 il 18,1% dei residenti del Paese guidato dal premier socialista Pedro Sanchez sarà nato all’estero, per un totale di circa 8,8 milioni di persone. Marocco, Colombia, Romania, Venezuela ed Ecuador sono in cima alla lista dei Paesi di origine più comuni. Questi cinque Paesi da soli rappresentano quasi tre milioni di persone. Tuttavia, la loro distribuzione in Spagna non è uniforme. La Spagna è quindi un Paese segregato? Ci sono solo 25 città – su oltre 8.000 in Spagna – in cui gli immigrati rappresentano la metà della popolazione, secondo i dati del 2023. In realtà, quasi tutti si trovano nella provincia di Castellón, quindi sarebbero britannici e tedeschi. Questo sfiderebbe molti stereotipi.
«Ghetti? dovremmo parlare di segregazione della popolazione»
Alla domanda su cosa sia un ghetto, non c’è una definizione chiara. Né in Spagna né negli altri casi analoghi emersi su scala continentale. «Non esiste una definizione assoluta», avverte Jesús Fernández-Huertas, professore di Economia dell’immigrazione, Economia del lavoro e Sviluppo all’Università Carlos III. «In questo caso, dovremmo parlare più di segregazione della popolazione», aggiunge Fernando Relinque, professore di lavoro sociale e servizi sociali all’Università Pablo de Olavide.
Esistono indicatori per misurare la segregazione, analizzando la concentrazione delle popolazioni immigrate in determinati quartieri o sezioni di censimento rispetto al resto della municipalità. Ma per parlare di ghetto, secondo Relinque, bisogna anche considerare se l’area ha caratteristiche socioeconomiche specifiche che la rendono «più vulnerabile del resto». «Non oserei dare una definizione assoluta», insiste.
Fonte: Il Sole 24 Ore