Dalla filosofia del dominio a quella della responsabilità
Immagina – potremmo far cantare a un John Lennon dei nostri giorni – un mondo in cui ogni persona vive con dignità e senso di comunità entro i limiti delle risorse del pianeta. Immagina di riconsiderare le esigenze delle nostre società in modo da tener conto delle possibilità della Terra. Immagina di aumentare il benessere delle persone e non i consumi… Non è però la canzone di un utopista, ma la proposta realizzabile di un’economista inglese di nome Kate Raworth, che insegna a Oxford e Cambridge. Definita la “teoria della ciambella”, l’ha illustrata nel saggio Doughnut economics (2017): un’alternativa alla “crescita infinita”, considerata ancora comunemente come l’unico modello di sviluppo possibile. È una delle ipotesi prese in considerazione nel saggio Ripensare l’Antropocene. Oltre natura e cultura, a firma di Paola Govoni, Maria Giovanna Belcastro, Alessandra Bonoli, Giovanna Guerzoni; rispettivamente una storica, una biologa, un’ingegnera, un’antropologa: amiche ricercatrici che insegnano all’Università di Bologna. Per superare la crisi del XXI secolo – una crisi che è climatica, ecologica e sociale, come ben mostrano le autrici sottolineando le fondamentali interconnessioni tra questi aspetti – è necessario divenire capaci di provvedere non solo ai bisogni umani, ma a quelli di tutti gli esseri viventi, tenuto conto dei limiti chimico-fisici-sistemici del pianeta.
«In altre parole – scrive Bonoli – il ruolo che dovrebbe avere l’economia e, si potrebbe aggiungere, la politica, o meglio la buona politica, dovrebbe essere di garantire che chiunque sulla Terra possa soddisfare le fondamentali necessità della vita: cibo e alloggio, assistenza sanitaria, istruzione e voce politica. Assicurando allo stesso tempo che l’umanità non metta troppa pressione sul pianeta, alterando ancora di più di quanto già fatto, i presupposti ambientali di supporto alla vita della Terra, come un clima stabile, suoli fertili, disponibilità di acqua…».
Il saggio, esito di un progetto chiamato TerraFranca in cui sono stati coinvolti studenti universitari di varie discipline, sottolinea come nelle giovani generazioni stia aumentando la consapevolezza di quanto i temi ambientali non siano affrontabili se non considerando le forti interconnessioni tra dimensioni diverse: sfruttamento delle risorse naturali e giustizia sociale, cambiamento climatico e aumento delle disuguaglianze socioeconomiche globali.
L’Antropocene, lo storico Jason W. Moore lo chiama Capitalocene, per sottolineare l’effetto devastante sull’ambiente del sistema capitalistico di produzione, consumo ed estrazione delle risorse. Un altro storico, Marco Armiero, lo chiama invece Wasteocene, per porre l’accento sulla nostra incapacità di gestire le immondizie che perdura da quando nel neolitico abbiamo inventato agricoltura e allevamento, diventando stanziali e ponendo le basi per l’eccessivo sfruttamento del globo. Sfruttamento che ha generato una produzione smodata di rifiuti, con conseguenze catastrofiche per il mondo in termini di impatto ambientale, economico e sociale. Per “ripensarlo” «è vitale che ci pensiamo come una popolazione del sistema Terra, non come gruppi nazionali o regionali sempre in gara, quando non in conflitto fra loro» afferma Govoni. «Per transitare dalla filosofia del dominio o dell’indifferenza a quella di un evoluzionismo che ci riporti in modo responsabile sul Pianeta (nel senso di Gaia o sistema Terra) dobbiamo imparare a dominare almeno un po’, per riconoscerne le interazioni, quelle conoscenze naturalistiche, tecnologiche, sociali e umanistiche che troviamo invece sempre separate, a scuola, all’università e ovunque. Conoscenze che qualcuno ci presenta addirittura come in conflitto fra loro» sottolinea, spiegando come il sistema universitario si sia «autoimprigionato» in piccole corti chiamati settori-scientifico-disciplinari, che al momento sono 383! «È urgente imparare a smontare e riassemblare (…) quei saperi frantumati». Maturare una coscienza «ecocentrica». Superare quella «zona confortevole dello specialismo: piccoli settori asfittici dove la consanguineità sostiene il crollo della diversità dei punti di vista». A partire dal falso dualismo natura-cultura (che, scrive Guerzoni, «è partecipe di quella violenza strutturale che è alla radice delle catastrofi ambientali attuali»), ma anche del «noi contro loro», mettendo in prospettiva il concetto di migrazione, che fa parte della nostra specie fin dagli albori. «Le politiche energetiche, economiche e sociali vanno pensate a livello planetario, e non con l’obiettivo del qui e ora» scrive Govoni, ricordando come negli anni 70 l’assottigliarsi dello strato di ozono fu affrontato dalla comunità mondiale con una strategia condivisa che permise al “buco” di richiudersi. Aggiungendo poi che il problema demografico va affrontato in modo scientifico, e anche in modo umano, favorendo politiche di ridistribuzione della popolazione mondiale dalle zone del pianeta colpite da crisi ambientali, politiche e sociali ad altre zone di relativo benessere dove la spinta demografica è in calo.
«È in larga misura dalla mancata conoscenza della nostra storia evolutiva che derivano – a nostro parere – problemi così diffusi di sessismo e razzismo, classismo, ageismo e abilismo, intolleranza e mancanza di rispetto ambientale. Atteggiamenti che giustificano quell’attitudine compulsiva allo sfruttamento, distruzione e inquinamento di tutto ciò che ci circonda» continua Govoni. Secondo la storica, esperta delle interazioni scienza-società e degli studi di genere: «Consapevoli dei nostri limiti e di quelli della Terra (le risorse sono finite) dobbiamo procedere in quel modo accorto, disincantato e scettico che si basa sia su sperimentazione e dati verificati, sia sulla consapevolezza – che non si lascia intimidire dalle conformiste accuse di relativismo – della temporaneità e possibile fallacia dei fatti scientifici: basterà ricordare la lunga vita di “fatti” scientifici come il geocentrismo, l’inferiorità delle donne o del razzismo». La scienza – scrive – è «cultura dell’incertezza».
Fonte: Il Sole 24 Ore