dall’oro olimpico al coaching, la crescita personale come chiave del successo”

dall’oro olimpico al coaching, la crescita personale come chiave del successo”

Un buon coaching, di conseguenza, deve avere l’obiettivo di guidare e motivare le persone a dare il meglio di sé, vivendo pienamente le dinamiche di squadra e puntando ad esprimere le performance migliori lungo tutto il percorso. La ricetta di Bertoli per raggiungere lo scopo è sulla carta semplice e trova espressione nei principi del metodo maieutico: «Coinvolgere le persone e avere come priorità la loro energia e la loro presenza di spirito. Non è sempre vero che chi più sa, più è bravo. Le competenze non sono il punto di arrivo perché sono la motivazione e il coraggio a fare spesso la differenza e qualsiasi sfida va affrontata con queste caratteristiche». Non c’è ovviamente una formula magica buona per tutte le occasioni ed è necessaria invece predisposizione da entrambe le parti, manager e collaboratori, allenatore e giocatori. «Sono la stessa energia – aggiunge ancora Bertoli – e sono un’unità assoluta. Il leader ha qualcosa in più ma è tutt’uno con il suo team».

Le somiglianze con lo sport

Le assonanze con il mondo dello sport, parlando di questi temi con Bertoli, certo non mancano. E si scopre così che il tema del change management è assimilabile a una partita di calcio e che la gestione del cambiamento è l’espressione dell’essere il meglio di sé stessi in tutti i momenti della partita, perché in un contesto di continui ribaltamenti (come lo può essere una sfida a pallone) occorre essere sempre lucidi e saper trovare le soluzioni più opportune. Migliorare sé stessi per migliorare con gli altri, questo un altro fondamento raccontato nel libro, è una regola applicabile a tutti perché ogni soggetto di un’organizzazione (o di un team sportivo) è un anello della catena. «Tutti possono essere spinti e motivati a tirare fuori il meglio – spiega in proposito Bertoli – valorizzando i pregi rispetto ai difetti: si vince con l’esaltazione e l’allenamento delle virtù e dei talenti, guardando ai difetti per colmarne gli impatti ma evitando di essere troppo autocritici, concentrandosi sulla qualità dell’individuo in modo virtuoso per esaltarne le doti, dal leader all’ultimo dei collaboratori».

E parlando di leader, oggi a queste figure manca secondo Bertoli qualcosa e nella fattispecie la presenza di spirito, mancanza che rende difficile comprendere lo stato d’animo dei collaboratori e i segnali che i loro atteggiamenti lasciano intuire. C’è inoltre, a suo dire, eccessiva propensione ad esaltare i difetti e non a valorizzare i pregi, con il risultato di ridurre il coinvolgimento e la motivazione dei collaboratori. «Le persone vogliono stare con i leader che sanno valorizzarli, che sanno incoraggiarli a vincere la paura e le sfide, costituendo un esempio per i giovani. Ognuno può diventare leader e la fiducia è il motore che ti fa camminare in avanti, dandoti la convinzione di poter raggiungere il limite del tuo talento. È un percorso di scoperta delle proprie virtù, perché non siamo macchine ma essere unici, che gestiamo momenti e stati d’animo, a volte in modo eccezionale».

Le difficoltà per un mentale coach

Principi e concetti chiari, quelli che devono muovere l’opera di un mental coach in un’era in cui insegnare ad essere leader e fare formazione è più complesso rispetto al passato perché richiede molta più attenzione. «Il fattore digitale – sottolinea infatti Bertoli – aumenta la capacità di definire le priorità e va gestito in modo adeguato, focalizzando l’attenzione e la concentrazione in modo mirato, riducendo il rischio di distrazione. E poi c’è il fattore tempo, altrettanto fondamentale, perché occorre scegliere in modo consapevole dove destinare la propria attenzione». Senza dimenticare che, dietro l’angolo, può incombere il fallimento, che a volte non dipende da noi stessi e che va considerato un momento di svolta, di un possibile aggiustamento nonché di occasione per trovare e scoprire nuove motivazioni e nuove forze. «Sconfitta e fallimento sono parte del percorso», conclude Bertoli, che a precisa domanda se ritiene più difficile fare il manager di una multinazionale o l’allenatore di un team sportivo di un certo livello risponde da “vecchio capitano” (e non poteva essere altrimenti): «la seconda, ma fare il leader in una grande azienda è una sfida appassionante».

Loading…

Fonte: Il Sole 24 Ore