Dentro la routine dell’impastatrice – Il Sole 24 ORE

Dentro la routine dell’impastatrice – Il Sole 24 ORE

La prima parte dell’ultima stagione di Better call Saul finiva con un punto di non ritorno, questa seconda ricomincia dalle conseguenze immediate e durature della violenza folle di Lalo. Forte delle precedenti stagioni, che hanno esplorato in profondità la natura incorreggibile di Jimmy, di Kim e delle reciproche influenze benefiche e ambigue, la serie può ora accelerare verso il futuro già scritto del protagonista.

Archiviata la parte più crime, il racconto torna a concentrarsi su Saul, già Jimmy McGill, e si sbilancia verso il dopo: a prendere spazio sono gli eventi post-B reaking bad, che fin qui hanno occupato alcuni cold open, i brevi segmenti narrativi iniziali caratterizzati dal bianco e nero e da un Saul nascosto in Nebraska dietro un’ennesima identità e un lavoro di basso profilo.

L’interconnessione con Breaking bad esplode nei vari flashback e nelle gradite apparizioni di Walt e Jesse (a volte motivate dal desiderio di omaggiarli più che dal racconto), così come in quello stesso senso di inevitabilità che ammanta la concatenazione degli eventi. Ma diversamente da Breaking bad, la cifra di Better call Saul non è la tragedia, e Jimmy non è un villain megalomane: più umanamente, è un uomo con un’inclinazione problematica che è lo specchio delle sue frustrazioni familiari e sociali, e che prende una piega più grottesca e oscura quando Kim non è più lì ad arginarlo.

Il punto di arrivo degli archi narrativi di Saul e Kim non è forse dei più sorprendenti, ma risuona appropriato e fedele al cuore emotivo della serie, grazie anche alle prove sottilmente eccellenti di Bob Odenkirk e Rhea Seehorn. Ma anche la manciata di episodi che precede il finale offre momenti magistrali: con una scelta di impatto, e con la coerenza stilistica che contraddistingue le due serie, le parti ambientate nella linea temporale dopo Breaking bad rimangono in bianco e nero. La ripetitività del lavoro di Saul, ora Gene Takavic, manager di un chiosco nel centro commerciale di Omaha, è esaltata dalle scelte visive e formali: le riprese fisse, i dettagli che diventano astratti (come il roteare dell’impastatrice), il ritmo rallentato ma ricco di tensione rendono tangibile una routine ingabbiante. Gene tenta di incrinarla a modo suo nello strepitoso episodio Nippy, che a tre puntate dalla fine si prende il rischio di inserire nel tessuto narrativo personaggi nuovi e determinanti. Nippy è l’ultimo spartiacque, e dà il via alla concatenazione di decisioni e passi falsi che trascinerà Jimmy verso la sua conclusione. In modo speculare, l’episodio dedicato a Kim delinea una nuova vita ordinaria e volutamente priva di emozioni, dominata da uno studiato distacco che fa da precaria arma protettiva.

Si dice che il finale di Better call Saul segni la fine di un’idea di prestigio seriale che oggi lascia il posto ad altre tendenze e necessità: forse è vero, ma i tentativi di definire rigidamente le epoche televisive attraverso patenti di qualità lascia il tempo che trova. Di certo questo straordinario equilibrio tra scrittura, potenza stilistica, suspense e affetto per i personaggi, un marchio di fabbrica cesellato per anni da Gilligan, Gould e la loro squadra, è difficile da replicare, e ci mancherà.

Fonte: Il Sole 24 Ore