Dimissioni Tavares,  il manager portoghese aveva ragione sulla crisi dell’automotive 

Dimissioni Tavares,  il manager portoghese aveva ragione sulla crisi dell’automotive 

E se avesse ragione Tavares? Nel senso che a spulciare si fa presto a tirar fuori che il manager non era perfetto, che ha commesso tre errori grandi e altri dodici minori, ma la vera domanda è: era lui il problema? Qui c’è in gioco uno dei principali gruppi automobilistici europei e non possiamo lasciarci andare alla solita illusione che basti cacciare il cattivo dal villaggio per trasformarlo nel giardino incantato. Stellantis è in crisi, d’accordo, e dunque si cambia allenatore. I singoli gruppi industriali sfornano di continuo strategie e tattiche industriali, organizzative e commerciali, qualcuna giusta e qualcuna sbagliata. Dopo un po’ si accorgono dell’errore e riparano, anche rimuovendo il manager se del caso. Fa parte del gioco che va avanti da oltre un secolo e, udite udite, è pure a cicli contrapposti: quando va male a uno va meglio all’altro, se non altro perché se ne approfitta. Adesso la situazione è diversa: Atene piange, sì, ma Sparta non ride. Qui è tutta l’industria automotive europea ad essere in crisi, Volkswagen in testa, per sua stessa ammissione. Questo lo sappiamo tutti. Allora, la caccia all’errore di questo o quel manager, che sarebbe normale, non può far capire la vera causa del disastro, dei disastri. Qui non c’è un malato da curare, ma un’intera partita di cibo avariato. E sulla fattura c’è scritto il nome del fornitore: green deal. L’industria automobilistica europea è stata investita da un treno politico-normativo che le ha legato le braccia dietro alla schiena, proprio mentre scendeva in campo per competere con l’arrivo di prodotti cinesi più forti delle attese per design, qualità e infotainment e molto aggressivi, ma questo era noto, sul prezzo. Auto cinesi, è bene ribadirlo, termiche, non elettriche come vorrebbe certa narrazione giornalistica che insiste a raccontare che l’auto ormai sia a pile mentre i clienti continuano beatamente a chiedere pistoni e serbatoi.

Tornando al ciclone ideologico, dobbiamo avere il coraggio di chiederci se l’industria automobilistica europea fosse davvero in grado di resistere. Tutti i top manager a microfoni spenti ammettevano che la rotta era sbagliata, che si andava a sbattere, ma davvero rientra nei loro compiti e capacità di saltare sui trattori e marciare verso Bruxelles? Perché di questo si tratta. Questo hanno fatto altre industrie altrettanto colpite dalle politiche ideologiche. De Meo, in qualità di presidente di Acea, l’associazione dei costruttori, ha dichiarato che per non pagare le multe CAFE l’industria potrebbe ridurre nel 2025 di 2,5 milioni la produzione di auto. Cosa ben nota da anni, eppure l’ha detta dopo le elezioni europee. Come si fa a non ipotizzare che abbia preferito non interferire su un equilibrio a Bruxelles che magari al suo azionista pubblico stava bene? E poi, la finanza che dà ossigeno all’industria dell’auto avrebbe permesso una presa di distanza dall’elettrificazione spinta? Quando c’ha provato Toyota, che non sconfessava ma semplicemente non dichiarava all-in sull’elettrico, alcuni fondi scandinavi e quello della Chiesa Anglicana hanno fatto tali pressioni da ottenere la rimozione di Akio Toyota dal suo ruolo. Chi aveva, chi ha un quarto delle spalle finanziarie del gigante giapponese?

Oggi nemmeno le forze politiche contrarie al Green Deal se la sentono di contestarlo. Di dire che l’Europa come tale è marginale nelle emissioni, pesando meno del 7% e essendo già in calo ogni anno dal 1980, che le auto circolanti in Europa, secondo i dati dell’Europarlamento, pesano lo 0,9% delle emissioni. Invocano una neutralità tecnologica che già c’è, invece di contestare l’obiettivo da raggiungere, quelle emissioni zero allo scarico che non significano assolutamente nulla per l’ambiente.

“Non esiste vento a favore per il marinaio che non sa dove andare”. Quali rotte, quali strategie potrà mai disegnare il successore di Tavares, se nessuno sopra di lui a Torino, a Parigi e anche a Roma ha il coraggio di dire che il porto d’arrivo va cambiato, che l’auto non può essere trattata come un inciampo, un male del passato di cui sbarazzarsi. L’auto è un grande prodotto per i cittadini e una grande industria per l’Europa. È tempo di rimettere la chiesa al centro del villaggio.

 

Fonte: Il Sole 24 Ore