Dopo lo strappo Trump pronto a bloccare aiuti a Kiev

Dopo lo strappo Trump pronto a bloccare aiuti a Kiev

La Casa Bianca raddoppia le minacce, all’Ucraina non a Vladimir Putin. Fonti dell’amministrazione americana hanno indicato che il Presidente Donald Trump, dopo il suo duro scontro con Volodymyr Zelensky, è pronto adesso a far seguire i fatti alle parole, con le quali ha apostrofato il leader ucraino come un ingrato e un ostacolo ad accordi di pace con la Russia: potrebbe cancellare la consegna di miliardi di dollari in arsenali made in Usa, già programmati e pagati sotto la precedente amministrazione di Joe Biden, tra i quali missili, proiettili di artiglieria e altre munizioni, veicoli militari. Il Pentagono ha stimato che nei magazzini restino da spedire armi per 3,85 miliardi.

Gli interrogativi sulla strategia e le intenzioni di Trump, all’indomani della crisi, seminano panico e preoccupazione tra gli alleati occidentali, dalle ambasciate a Washington alle capitali europee e al Congresso statunitense. Dubbi se la rottura sia sanabile, e in quale misura, o se rifletta svolte più profonde. Certo è che, davanti alle avanzate del Cremlino, il dossier delle forniture belliche è urgente e potrebbe rivelarsi decisivo: mette Kiev con le spalle al muro e alza enormemente la pressione sull’Europa e il suo sostegno a Zelensky per tenere a bada l’aggressione di Putin, considerata prologo di mire più ambiziose. Se l’Europa ha fornito maggiori aiuti a Kiev degli Usa, 138 miliardi contro 119, le forniture militari americane sono ad oggi cruciali, per dimensioni (67 miliardi) e sofisticazione, difficili se non impossibili da sostituire. E sono già 50 giorni che il Pentagono non annuncia nuovi invii di armi, in passato avvenuti in media ogni due settimane.

Washington intanto è scossa da polemiche, ma confinate al momento ad analisti ed esponenti dell’opposizione che hanno denunciato la scena nello Studio Ovale come il tradimento senza precedenti di un alleato. Il leader democratico al Senato, Chuck Schumer, ha detto che Trump e Vance «fanno il lavoro sporco di Putin». Al di là della retorica, ci sono timori maggiori: l’escalation pubblica degli attacchi a Zelensky, iniziata dal vicepresidente JD Vance, è stata considerata non casuale bensì un’imboscata, per umiliare e screditare un leader che Trump vorrebbe estromesso, dal veterano commentatore del New York Times Thomas Friedman e dall’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Barack Obama, Susan Rice. Trump, sottolineano altri osservatori, potrebbe più in generale vedere la sua politica estera come un gioco di grandi potenze. Una partita tra Washington, Mosca e Pechino, dove gli alleati possono essere sacrificati come pedine e spesso sono zavorre, non essenziali alla leadership americana e che anzi si approfittano degli Stati Uniti. Un riposizionamento al quale sicuramente ammicca il Cremlino.

Un’altra incognita è rappresentata dal ruolo del vicepresidente Vance, protagonista quale “pretoriano” di Trump: ha evitato di rispondere alle obiezioni di Zelensky a un negoziato con Putin senza garanzie di sicurezza per l’Ucraina, fondate sulle continue violazioni di accordi da parte del Cremlino. Per cogliere invece l’opportunità di passare all’offensiva. L’interrogativo è ora se questo rappresenti o meno una continua ascesa nell’amministrazione del più ideologico unilateralismo, nazionalismo e isolazionismo sposato dal vice di Trump. Vance si è già distinto per il controverso sostegno a forze di estrema destra in Germania durante le recenti elezioni e in passato ha destato scalpore per aver detto: di quel che accade all’Ucraina «non mi importa davvero nulla».

È stato lo stesso segretario di Stato Marco Rubio, ex falco anti-Putin convertito al Maga, a evocare una triangolazione oggi cercata da Trump con Russia e Cina quale nuova stella polare della politica estera: «Sono grandi, potenti Paesi con armi nucleari. Possono proiettare potere su scala globale. Abbiamo perso il concetto di maturità nelle relazioni diplomatiche», ha detto al sito Breitbart News.

Fonte: Il Sole 24 Ore