Duilio Giammaria: il viaggio afghano di un reporter vecchio stile
In campo critico meriti e demeriti, ci ricorda Pier Paolo Pasolini, sono sempre assiologici: o sì o no. Il saggio/reportage di Duilio Giammaria (La magnifica porta, un paese chiamato Afghanistan, Marsilio, pp.304) è un sì. La ragione è in molte ragioni.
Prima di tutto perché si colloca nella linea di un racconto – l’Afghanistan moderno – senza cedere alla moda editoriale imperante, e stucchevole, di scrivere libri divulgativi che abbracciano orgogliosamente, e incomprensibilmente, secoli e secoli di Storia.
Liberamente fedele
Giammaria si è dato, per nostra fortuna, un preciso perimetro temporale – quello della guerra americana che va dal dopo 11 settembre 2001 ai giorni nostri, cioè all’ennesima caduta di Kabul – e che coincide con la sua esperienza diretta sul campo. Testimone di una delle battaglie più significative dell’operazione statunitense (Anaconda) che avrebbe potuto cambiare le sorti non solo del conflitto ma degli equilibri regionali e forse mondiali, Giammaria narra le cose con gli occhi del viaggiatore senziente. Egli si muove infatti fuori dalla gabbia del moderno reporter embedded, risultando così liberamente fedele una nobile linea di modelli (sempre irraggiungibili, altrimenti che modelli sarebbero?) che va da Kapuścińki a Chatwin.
A quest’impostazione generale l’inviato-scrittore fa seguire un racconto sobrio nell’alfabeto e nell’esposizione. Ci risparmia, insomma, dal lirismo di molti autori che credendosi Tennyson, forse senza averlo letto, illustrano i propri reportage con descrizioni di albe e tramonti esotici (per la provinciale cultura italiana l’esotico comincia appena fuori la comfort zone), turbanti e veli femminili, come se la vena poetica nobilitasse l’analisi geopolitica invece di falsarla.
Kabul
Per la sensibilità occidentale modaiola che si ricorda di Kabul solo in occasione dei suoi tristi anniversari questo saggio-racconto è quindi un ottimo antidoto.I capitoli dedicati all’operazione Anaconda, si accennava, sono tra i più densi. Raccontano la madre di tutte le battaglie (da parte jihadista) e di tutte le débâcle (da parte americana) cioè quella di Shah-i-Kot dove la dottrina Rumsfeld incappò nella seconda sconfitta dopo il fallimento di Tora Bora. La latitanza di Bin Laden, protetto dai rifugi di montagna e quindi fuggito in Pakistan, durerà dieci anni ancora.Tra arte Kushan e geografie, tattiche militari e indolenze politiche, e una Kabul che cade, risorge e cade nuovamente, le pagine della “magnifica porta” aprono a istanze di dibattito colte nel passaggio sempre cruciale, a vent’anni dai fatti, della cronaca alla dimensione di Storia; uno snodo metodologico delicatissimo, da trattare con deontologia e cultura, per evitare il rischio di storpiare la prima e banalizzare la seconda.
Gli archivi, in fondo, sono raccolte di testimonianze organizzate e quest’opera si candida a ricomporre tessere di un mosaico che la frenesia dei moderni media trascura, preferendogli il vuoto della connessione permanente e aggiornatissima, ma spesso senza approfondimento. Le conclusioni di Giammaria hanno il tocco del viaggiatore novecentesco. Lasciano aperto il quesito sul futuro dell’Afghanistan senza moraleggiare o prendere a prestito vulgate narrative algoritmicamente retoriche da inserto culturale generalista. Un bel libro insomma: un pezzo di vecchia scuola.
Fonte: Il Sole 24 Ore