E il busto di Mao conquistò la vetta

Maria Luisa Colledani

Scalare il dissenso conquistando gli 8mila dell’Himalaya. Il regime cinese ha spedito in vetta ragazzini quasi senza arte né parte se non per qualche lezione presa dai colleghi dell’Urss, per affermarsi sullo scacchiere del mondo. L’alpinismo della Repubblica popolare cinese fu pianificato per addomesticare il popolo e i nemici: toccare il cielo significava fare propaganda. Che poi quelle vette siano state davvero raggiunte e a quali costi umani e finanziari è tutto da verificare: l’ha provato a fare Cédric Gras nel suo Gli alpinisti di Mao, volume documentatissimo, frutto di anni di ricerche per archivi, e non solo: «Ho cercato di attenermi il più possibile a quello che penso sia accaduto e di mantenere uno sguardo critico senza mettere sistematicamente in discussione le fonti cinesi, basandomi sulle testimonianze di vari sopravvissuti ma sempre a partire dai racconti di Liu Lianman o di Xu Jing. Il libro è un’inchiesta molto imperfetta». Più che imperfetta, meglio definirla in fieri, comunque ricca, minuziosa (come era stato anche l’altro lavoro di Gras, Gli alpinisti di Stalin, Corbaccio) e con un gran senso di avventura: chissà quali e quanti altri documenti sulle spedizioni cinesi potranno emergere a chiarire aspetti oscuri, a partire, ad esempio, dal riconoscimento dei protagonisti nelle foto o dai loro nomi, trascritti con grafie diverse e fuorvianti.

A scuola dai sovietici

Negli anni 50 i cinesi imparano i rudimenti dell’alpinismo dai sovietici: progettavano di scalare l’Everest dal versante tibetano e di piantare insieme sulla cima le loro bandiere rosse. Ma i cinesi erano stati selezionati più per il loro fanatizm che per la loro attitudine all’alta quota, le loro competenze erano scarse ed erano più devoti dei sovietici alla causa del marxismo: «Non si trattava di una fuga verso il cielo ma di una conquista ultranazionalista. Un’impresa di propaganda attraverso ghiaccio e tempeste mentre la carestia stava decimando il Paese e gli altipiani scoprivano la lotta di classe».

Il mendicante delle cime

La storia inizia da Xu Jing, il primo ad avere impugnato una piccozza, il primo a essersi appeso a una corda. Nel 1956, dieci delle quattordici vette più alte della Terra sono state conquistate senza che un solo alpinista socialista sia mai stato in corsa: la Cina non può più stare a guardare e l’Everest completerebbe idealmente l’annessione del Tibet. Accanto a Xu Jing, c’è Liu Lianman, il mendicante delle cime, non perché sia migliore degli altri ma perché sarà decisivo nella spedizione all’Everest: «Il partito ha offerto loro mari di nuvole al posto dei campi o della fabbrica». Ecco le prime ascese: il vulcano Muztagh Ata, la vetta del Minya Konka, il Pik Lenin. Il primo tentativo verso l’Everest è del 1959, con tutti gli ostacoli causati dalla resistenza tibetana, ma la squadra è nutrita: un centinaio di uomini che sanno passare velocemente dalla piccozza alle armi perché dovevano conquistare il Chomolungma/Everest e invece hanno sottomesso il popolo che lo ritiene la vetta degli dèi. Poi, nel 1960, altro squadrone (214 alpinisti di cui undici donne), e 700mila dollari di investimento con materiale da tanti Paesi dell’Occidente. Dopo il Campo 7 a 8100 metri, il punto di partenza per attaccare la vetta è a 8500 metri. Esistono varie versioni della parte finale dell’ascensione, tutte piegate alle necessità del regime. Tre valorosi maoisti, un geologo, un taglialegna e un soldato tibetano arrivano in vetta il 25 maggio 1960, concludendo la salita senza ossigeno né altri aiuti e lasciando lassù un busto di Mao e la bandiera cinese. Gonpo, il tibetano, così ricorderà quel momento 50 anni dopo: «Eravamo senza parole ma i nostri cuori erano pieni di gioia ed eccitazione. Avevamo portato a termine la missione che il presidente Mao e il Partito ci avevano affidato».

Gli scalatori nei laogai

Intorno, il Paese è in ginocchio, la collettivizzazione delle campagne ha portato carestia e morte, i laogai sono pieni. Mao lancia la sua nuova campagna politica, la Grande rivoluzione culturale proletaria e il mondo tibetano viene spazzato via, anche il sistema sportivo nazionale non va più bene: il socialismo incoraggia la cultura fisica delle masse, mica solo pochi uomini sotto i riflettori. Il fanatismo ha conquistato gli altopiani, è buio e stridor di denti. Xu Jing è arrestato perché l’alpinismo era diventato improvvisamente controrivoluzionario. Pestaggi, interrogatori, “corsi di studio”: «dopo la purezza dei ghiacciai, la merda degli uomini, il fango, gli stracci, i pidocchi, le percosse. Tutto questo nel nome di Mao, a lui che ne aveva portato il busto sull’Everest».

Fonte: Il Sole 24 Ore