Estremi, imprevedibili e visionari: l’incredibile storia dei Monks
Si sono sciolti poco prima di mettere a punto un piano assurdo: suonare dal vivo a Saigon, in piena guerra del Vietnam. Ma già il loro inizio è tutt’altro che scontato. Sono cinque militari americani di stanza in Germania Ovest che mettono su un gruppo chiamato Torquays. Suonano cover di Chuck Berry, surf rock e artisti della British Invasion nei bar per militari vicino alla loro base di Gelnhausen. “Cercavamo uno sbocco per alleviare la pressione della vita militare”, ricordano. Tuttavia, lo fanno anche gli altri soldati che, durante i sabato sera in cui il gruppo si esibisce, scatenano risse sedate dalla polizia con lacrimogeni. Era diventata una prassi. A tal punto che l’organista Larry Clark comincia a portarsi appresso una maschera antigas per continuare a suonare, mentre sedie e tavoli gli volano attorno, andare a fine concerto dal proprietario e pretendere la paga piena. Dopo vari cambi di formazione, nel 1964 la band raggiunge la stabilità con lo stesso Clark, il chitarrista e cantante Gary Burger, il bassista Eddie Shaw, il banjoista Dave Day e il batterista Roger Johnston. L’anno successivo, i Torquays pubblicano il loro unico 45 giri, There She Walks.
La storia dei Monks è solo una piccola parte del loro fascino
Durante una prova, Burger deve scappare in bagno e poggia la chitarra sull’amplificatore, che comincia a fischiare. Su quel “suono orribile”, Johnston inizia a suonare i tom della sua batteria. È grazie a momenti come questo che la sperimentazione su cui il gruppo insiste per un anno si trasforma, con un colpo di fortuna, in vero e proprio sound. Una sera i Torquays vengono notati da Walther Niemann e Karl-H. Remy, due tedeschi laureati in design che propongono al gruppo di fargli da manager e sviluppano attorno alla band un concetto artistico a tutto tondo. Nascono i Monks, cinque musicisti che si rasano come i monaci e vestono il saio, anche quando scendono dal palco. Chi li incontra per strada, li saluta con reverenza, poi però li vede ubriachi e fatti di speed a flirtare e dire parolacce, così le accuse di blasfemia piovono addosso al gruppo, che subisce un’aggressione durante un concerto a Monaco. “Volevamo che tutti facessero solo una cosa, ascoltarci”, ricorda Johnston. Infatti, appena il chiacchiericcio del pubblico aumenta, i Monks alzano i volumi fino a livelli spropositati.
Uno degli album più sottovalutati degli anni Sessanta
Come i Beatles, i Monks suonano incessantemente ad Amburgo. Al famoso Top Ten tirano avanti fino a sei ore a sera nei giorni feriali e anche più di otto nel fine settimana. Ribattezzano il loro sound uberbeat, “oltre il beat”, appunto. Suonano fuori moda, ma tremendamente avanti rispetto al loro tempo. Quando si esibiscono in televisione, scioccano un adolescente Hans Joachim Irmler, futuro membro dei Faust, pionieri del krautrock. Saranno omaggiati dai Fall, alfieri del post-punk, e osannati da Jack White. Black Monk Time è l’unico album dei Monks ed esce a marzo del 1966. Sarà seguito dai singoli I Can’t Get Over You / Cuckoo e Love Can Tame The Wild / He Went Down to the Sea, che si spostano verso il pop, assecondando la richiesta dei discografici disperati per il flop del disco. Nei loro testi criticano la guerra e un’istituzione come James Bond, nelle loro canzoni attuano una rivoluzione sonora naufragata in un battito di ciglio. I Monks se ne tornano negli Stati Uniti tra delusione e rancori personali, trovandosi dei lavori normali. Scopriranno decenni dopo che quella rivoluzione non si è sgretolata, ristampe e riconoscimenti ancora oggi lo dimostrano. Perché, come cantavano a metà anni Sessanta, “it’s monk time!”.
Fonte: Il Sole 24 Ore