Fra tradizioni e futuro, la moda ai tempi del multipolarismo
Nel suo primo negozio, inaugurato lo scorso maggio a Johannesburg, ci sono due elementi indispensabili: un generatore di elettricità e una cisterna per l’acqua. Ospitata in una villa degli anni 30 in un bel quartiere della più ricca città del Sud Africa, ma dove anche i servizi essenziali possono essere intermittenti, la boutique di Thebe Magugu – brillante talento e vincitore dell’Lvmh Prize for Young Designers nel 2019 – rappresenta plasticamente l’odierno multipolarismo della moda: un ecosistema in cui accanto ai marchi globali del lusso, pressoché tutti occidentali, l’evoluzione dei consumi e i nuovi equilibri geopolitici stanno favorendo il fiorire di proposte locali, che guardano esplicitamente e orgogliosamente al patrimonio culturale, non solo del vestire, dei propri Paesi. E si propongono come paradigma alternativo.
«Questo mutamento è in corso da circa 10 anni, ma ha accelerato negli ultimi cinque, dopo il Covid e la messa in discussione del modello della globalizzazione per come la conoscevamo – nota Patrizia Calefato, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università degli studi di Bari Aldo Moro e pioniera dei Fashion Studies in Italia -. Magugu, per esempio, propone una riflessione politica su una storia cancellata, nazionale e familiare, attingendo anche alla letteratura africana, come alle opere di Chinua Achebe (scrittore nigeriano noto anche per le sue denunce contro il colonialismo e le ingerenze occidentali nel continente, nda). Allo stesso tempo sta lavorando anche su presente e futuro con il progetto “Discard Theory”, con cui gli scarti della moda inviati in enormi quantità in Africa sono rielaborati in capi di lusso».
Nonostante l’intenso e diffuso fervore creativo, sostenuto anche dal susseguirsi di inserimenti nel patrimonio immateriale Unesco delle antiche tecniche tessili di tutto il continente, la nuova moda africana deve fare i conti con annosi ostacoli al suo sviluppo, non ultimo la mancanza di stringenti e uniformi regolamentazioni sulla tutela del diritto d’autore. Più organizzata sembra la situazione in India, dove la penetrazione dei marchi del lusso occidentale è in fase avanzata, anche se continua a fare i conti con l’uso persistente di abbigliamento e accessori tradizionali, rielaborati in senso contemporaneo dai designer. Per citare uno dei più celebri, il costumista preferito di Bollywood, Manish Malhotra (autore anche di molti look delle recenti e sfarzose nozze dell’erede della dinastia Ambani), sta investendo sull’espansione dei propri negozi (anche grazie ai capitali del gigante Reliance Brands Limited, che nel 2021 ne ha rilevato il 40%) ed è stato il primo marchio indiano a presentare una collezione nelle penthouse private di Harrods, dove ha portato creazioni con i broccati di Varanasi e ricami tradizionali come il chikankari di Lucknow e il phulkari del Punjab. «Questo nuovo lusso ha un grande spessore culturale e punta sulla qualità, tratti che possono attrarre chi fa acquisti di alta gamma, magari durante un viaggio – prosegue Calefato -. È un lusso nascosto, non urlato, ricco di racconti interessantissimi e poco noti, provenienti da Paesi che vogliono il loro spazio. Spesso le loro élite sono molto giovani, a differenza di quelle occidentali, e non vogliono avere una voce solo nella finanza globale, ma anche nella cultura».
In questo senso lo scenario più interessante è quello cinese: fino a pochi anni fa si stimava che proprio in questo 2025 la Cina avrebbe superato gli Stati Uniti come primo mercato del lusso globale, ma molti e poco prevedibili fattori, come le prolungate conseguenze della pandemia e la crisi dei consumi interni, hanno rimandato quel primato a data da destinarsi. Nel frattempo, a raffreddare l’interesse verso i prodotti occidentali è stata anche la politica del governo di Xi Jingping che favorisce la riscoperta delle diverse culture e tradizioni cinesi. Nell’ottobre 2023 il segretario del Pcc chiudeva i due giorni di convegno dedicato al suo “Pensiero sulla cultura” sottolineando come «riscoprire 5mila anni di storia cinese favorirà una Cina più forte e un ringiovanimento nazionale». Un esprit du temps che attraversa le creazioni di designer molto amati in patria, ma non solo, come Angel Chen (che nella sue proposte per la PE 25 ha ripreso antichi elementi decorativi di Mongolia, Guizhou, Sichuan, Nepal, rielaborandoli in senso contemporaneo) e Samuel Guì Yang, che nella sua ultima collezione ha riflettuto sul vento come elemento di contatto, anche estetico, fra Est e Ovest.
Per ora sembra impensabile che un giorno le high street di tutto il mondo ospiteranno grandi marchi globali diversi da quelli di oggi: «I marchi “locali” tendono ancora a investire nei loro continenti, come ha fatto Magugu – dice Calefato -. Ma in un futuro nemmeno troppo lontano quell’evoluzione sarà del tutto possibile».
Fonte: Il Sole 24 Ore