Fusione con Renault, una strada difficile

A volte ritornano. Ma questa volta l’operazione sembra più plausibile, non fosse altro per il sostegno politico che pare avere in Francia, con un endorsement dell’Eliseo. Dopo circa nove mesi, da quando era stata ventilata la prima ipotesi, ritornano, più insistenti, le voci di una intesa tra Renault e Stellantis che porterebbe alla creazione di un gigante con 18 marchi ed economie di scala forse in grado di sostenere il difficile momento dell’automotive che affronta la sfida energetica. Una fusione monstre sembra però poco razionale e sensata dal punto di vista industriale per sovrapposizione di marche, modelli e tecnologie. Del resto, storicamente le grandi aggregazioni nell’industria dei motori non hanno mai funzionato bene e spesso hanno portato a un’implosione con la scomparsa di marchi (e fabbriche). Vero è che l’antica ricetta di Marchionne sosteneva che il consolidamento è l’unica strada per resistere e competere, ma automobilisticamente parlando si trattava di un’era geologica fa: un mondo diverso, fatto di auto termiche, tecnologie consolidate e di una competizione statica. Poi è cambiato tutto: sono arrivati Tesla, i cinesi e l’elettrico, mentre le case perdevano tempo e risorse in fughe in avanti come la guida totalmente autonoma. Oppure a inseguire Tesla, a puntare su mercati fuori perimetro con l’ubriacatura di andare sul premium, fare più margini con meno auto (a batteria) vendute. Nulla di tutto questo e ora l’industria europea, a causa anche di scelte della politica Ue, si trova in condizioni critiche. Mettere insieme Stellantis e Renault è un’ipotesi intrigante, storicamente rivoluzionaria, ma ha enormi incognite, analoghe a quelle irrisolte di Stellantis, nata dalla fusione tra Psa (Peugeot, Citroen e Opel) e Fca, macro struttura transatlantica che includeva i marchi italiani dell’ex Fca (Fiat, Lancia Alfa Romeo) e quelli Usa, dove spiccava Jeep, che è tra alterne fortune l’unico vero brand globale. Ora, con l’ingresso di Leapmotor, cinese, Stellantis vanta una quindicina di marchi e si sta avviando solo adesso, dopo quasi tre anni, a una integrazione di piattaforme e tecnologie tra i vari brand e modelli spesso quasi in fotocopia (e differenziarli costa tanto in termini di marketing). Senza contare che ci sono brand, Abarth e Ds per esempio, che evidenziano vendite omeopatiche, Maserati è in crisi, Lancia sta tentando ora una seconda vita e Alfa Romeo prova a stare in piedi. Il dubbio è che i marchi siano troppi: non c’è spazio per tutti. È difficile pensare che ci sia mercato per quasi una decina di suv elettrici e ibridi compatti, tre berline a ioni di litio (oppure mhev) a 5 porte. Senza citare modelli a fine carriera basati su piattaforme ex Fca.

Ha vinto, in Stellantis, lo schema industriale francese, che era più avanti e sta proseguendo con le nuove piattaforme Stla Large e Medium. E questo è solo un esempio. Tra l’altro la nascita di Stellantis ha decretato un declino, in Europa, dei motori Fca Firefly Gse. Alla luce di questo, è davvero difficile pesare che Renault possa in modo industrialmente ragionevole integrarsi con Stellantis, magari in un super gruppo guidato, come si vocifera, proprio dal ceo di Renault Luca de Meo, se l’obiettivo è quello di fare economie di scala e auto in fotocopia (o quasi). L’era del “badge engineering” sembra al capolinea. Come gestire la concorrenza interna tra Dacia, reginetta delle vendite d’Europa, e perla del risanamento della Renaulution di Luca de Meo? Ha davvero senso l’accanimento terapeutico verso brand, magari importanti e dal forte heritage ma che vendono poco o nulla e si tirano indietro alti costi di sviluppo e produzione? Domande dalla difficile risposta. Del resto, sorge anche un altro dubbio: davvero essere grandi con decine di brand è un vantaggio quando ci sono casi di eccellenza come Hyundai che è ai vertici della classifica mondiale con solo due brand di volume? Forse no, basti pensare a Tesla (un marchio, 4 modelli e il sistema funziona) o Byd con tre marchi ma alle spalle, come altre cinesi, il sistema paese e soldi a pioggia dal governo di Pechino.

Più che una fusione, che ha appoggi politici (il governo francese è azionista dei due gruppi), potrebbe essere, secondo molti analisti e osservatori dell’industria auto, più opportuno creare un consorzio per mettere a fattore comune risorse e competenze, soprattutto in settori chiave come software, batterie e intelligenza artificiale. È il famoso Airbus dell’auto, caldeggiato da tempo da Luca de Meo, anche sulle nostre pagine, cioè una organizzazione che faciliti lo sviluppo di tecnologie e riduca i costi e sia aperta anche alla partecipazione di altre case, tedesche in primis, e perché no anche di quei gruppi cinesi (Geely fra tutti) per potenziare gli attuali rapporti di collaborazione.

Fonte: Il Sole 24 Ore