Giovanni Pintori, un moto perpetuo al sapor di futuro

In occasione dei 50 anni dell’Olivetti fu pubblicato un libro, Olivetti 1908-1958 con copertina, meravigliosa, di Giovanni Pintori, curatela, inapputanbile, di Giorgio Soavi, e impaginazione, armonica, di Max Huber. Basterebbe questo piccolo grande esempio di triangolazione virtuosa a giustificare (e finalmente!), la superba mostra che il m.a.x. museo di Chiasso dedica a Giovanni Pintori (fino al 16 febbraio 2025), sardus pater della grafica italiana (Gavino Sanna dixit) e figura, ahimé, ancora poco nota, per quanto, invece, la sua grandezza (e freschezza grafica, che resiste tuttora) meriterebbe. Epperciò, l’iniziativa di (es)portare prima in Svizzera – dove la grafica ha sempre trovato, comoda, casa – Pintori e poi (ri)portarlo a Nuoro, da dove era partito negli anni 30 (la mostra sarà al Man, sapientemente guidato da Chiara Gatti, co-curatrice delle due mostre con Nicoletta Ossanna Cavadini), nel giugno 2025 (e al Man, complice l’allora direttrice Cristiana Collu, c’era già stata la prima mostra pintoriana), è massimamente lodevole e opportuna.

Ma queste traiettorie che, con il fulcro di Ivrea, intersecano i fili dell’esistenza di Pintori, spariscono davvero, come meri pretesti, di fronte alla sequela di pezzi che costellano le pareti delle sale e le teche del museo e che ribadiscono, in una maniera per certi versi “inedita”, o semplicemente inaspettata, anche per i conoscitori, la qualità dell’espressione artistica, non grafica, del nostro. Piccola parentesi personale: per anni, dietro la mia scrivania nella postazione nella sede di via Monte Rosa 91 a Milano, avevo attaccato un poster del «Tetractys» (1956) – una delle creazioni più celebri, non a caso emblema dell’esposizione –: lo avevo praticamente sotto gli occhi tutti i giorni, eppure, a rivedere, qui, i bozzetti e la realizzazione finita resto, si resta, ancora sbalorditi. Il linguaggio, lo stile, di Pintori, la sua «severa tensione tra riserbo ed estro» (sottotitolo di un fondamentale libro di Massimiliano Musina; Fausto Lupetti editore, pubblicato in occasione del centenario della nascita, nel 2012), emergono con forza commovente. Come, ed è il solo altro capolavoro che cito per la quasi insolente qualità di esecuzione, il poster «Numbers» (1949): qui l’originale dipinto consente di cogliere al millimetro, letteralmente, l’amore e la devozione di Pintori per la qualità tipografica di numeri e lettere (e che belle le riproduzioni altrove della Stele di Rosetta, protagoniste di alcune campagne pubblicitarie e metafore della potenza della parola e della scrittura). Si tratta di entrare in un mondo, quello olivettiano e quello pintoriano, in cui lo slancio verso la comunicazione di un prodotto (erano pur sempre macchine per scrivere o calcolatori da vendere) era ampiamente superata dalla forza del messaggio. Che verteva sempre sul significato della modernità, il suo utilizzo, il suo portato: e Olivetti in questo fu un esempio assoluto. Erano anni in cui l’industria scandiva davvero l’ingresso nel moderno e le lancette di Ivrea, esempio quasi irripetibile, puntavano dritte sempre al futuro. Pintori usa frecce e traiettorie, palline e lettere, numeri o, in una fase successiva, e ancora più concettuale, qui ben esemplificata, la nozione stessa di moto perpetuo, per esprimere un’idea che andava ben oltre l’acquisto. Perché con quell’acquisto, entravi, di diritto, nel contemporaneo, anche se compivi un gesto, la scrittura, che aveva millenni di storia. Il celebre manifesto con il calamaio dell’inchiostro usato come vaso per una rosa che fiorisce e sboccia nella parte sinistra, lasciando nella parte destra il vaporoso sogno umbratile del gesto profetizzava già questa posizione. Pintori è stato un filosofo della pubblicità e questa era sì un’arte, come recita il titolo della mostra: impegnato com’era ad innalzare il livello del messaggio, non si preoccupava di mettere l’accento solo sulle caratteristiche di ciò che si comprava, ma si ingegnava di non far perdere al consumatore l’aura che la macchina gli avrebbe fatto conquistare, lo stare al passo con i tempi, forse una nuova modalità umana. Olivetti, Adriano dico, lo difese sempre «a spada tratta», perché ne capiva l’ambizione umanistica dietro il lavoro; del resto, quelle campiture piatte di colore, immettevano Pintori dentro quel «modernism» che, da Lustig in giù, imperava. Grignani o lo stesso Huber avrebbero utilizzato allo stesso modo il colore: geometrie al sapore di futuro, traiettorie, segni, idee, come le indagini grafiche sul moto perpetuo che caratterizzano una feconda stagione di ricerca pintoriana prima dell’approdo definitivo alla pittura.

Resta il mistero di come sia stato possibile: lui schivo e taciturno, arrivato alla futuribile Milano, insieme a quell’altra luminosissima meteora artistica ed esistenziale di Salvatore Fancello (ragazzino che, nella prima traversata del mare, gli dormì sulle ginocchia) e Costantino Nivola, destinato a un futuro artistico ancor più grande: da un’isola millenaria al futuro. E restano quei dipinti del quartiere nuorese di Seuna che chiudono la mostra: «ritorno a casa» nostalgico e misterioso. Un mondo perduto, e mai lasciato definitivamente. Da Tresnuraghes al globo con una matita. Applausi.

Fonte: Il Sole 24 Ore