Gli applausi della Scala, Milano adotta Verdi e Netrebko
Ancora qualche veloce osservazione, ancora a caldo, dopo “La forza del destino” di Verdi che ha inaugurato ieri sera la stagione del Teatro alla Scala. Partiamo questa volta dal fondo: gli applausi. Sono un fatto di cronaca, certo. Ma indicativi di come cambi il rapporto del pubblico con la scena, in particolare in questa recita alla quale tutto il mondo (o quasi) guarda. A sbalzarsi con evidenza questa volta sono stati i notevoli osanna indirizzati alla super-protagonista, la diva Anna Netrebko. Lei l’unica a ottenere tanto clamore, tanto tangibile affetto da parte della sala. E ancor più in corso d’opera, davvero con autentici stop alla esecuzione, piuttosto che alla fine. Quando dall’alto del loggione è piovuta qualche contestazione (isolata, ma mi sa che anche un solo “buuh” suona forte al Piermarini) che ha avuto l’effetto di raffreddare gli entusiasti.
Vince lei, su una compagnia che nell’insieme ha brillato, e con voci potenzialmente di super-classe, e per vari motivi. Intanto per l’autocontrollo, davvero una lezione di palcoscenico. Il dominio su se stessa, sia su una voce che ovviamente non può più essere quella di vent’anni fa, sia su quanto può accadere di imprevedibile durante uno spettacolo – siamo pur sempre a teatro! – fa di lei forse l’artista più carismatica oggi in campo. La mette accanto ai grandi pianisti che pur sbagliando le note trasmettevano in senso interno di un brano, oppure di quei direttori anziani che fisicamente non alzavano più le braccia eppure ottenevano solo con lo sguardo un’intensità di orchestra insuperabile. La Netrebko ieri ha cantato combattendo fino alla fine. Superando i limiti di una emissione ingolata, cercando nelle pieghe delle corde vocali colori nascosti e emotivamente unici, puntando a disciplina e carisma interiori, ottenendo una identificazione assoluta con il personaggio. Quando aveva cantato Leonora a Londra, qualche anno fa, palesemente si era commossa, sulla struggente solitudine del personaggio verdiano. Ieri non più. Posto per le lacrime non poteva esserci. La barra dell’autocontrollo troppo importante e essenziale. Al suo posto uscivano una profondità più matura, l’accettazione del destino, la forza superiore agli eventi.
E poi per Anna Netrebko – cresciuta sulla palestra dei grandi leoni – quello che conta è il contatto magnetico con il pubblico davanti. Lei palesemente canta per noi che stiamo lì, sembra guardarci sempre; alla fine è l’unica che saluta facendo “ciao ciao”. La proiezione della voce dialoga, sì, con la buca, ma ne è anche indipendente: la supera e va oltre, verso lo spettatore. Questo atteggiamento la porta anche ad azzardare alcune libertà rispetto al testo. Direttori più fedeli non permetterebbero. Riccardo Chailly non la mette in discussione, accetta tutto. Guida lei. Del resto non è facile spuntarla. Perché possiede anche una tale capacità di invenzione e di risposta agli imprevisti da lasciare a bocca aperta. Ad esempio, ieri sera, clamorosamente è successo nell’ultimo atto della “Forza” un fatto – piccolo, ma rumoroso ed evidente – che avrebbe potuto intaccare lo spirito della regia pensosa e molto ben minutamente raccontata di Leo Muscato. Leonora avrebbe dovuto rimettere in piedi la testa della piccola statua della Madonna, in primo piano, uno dei pochi oggetti della scenografia di Federica Parolini (il resto alberi frondosi e poi tronchi mozzati). Il gesto molto simbolico, in un paesaggio di rovine e distruzione. Ebbene, la piccola testa, una volta riposizionata sul collo della statua, di nuovo cadeva sull’impiantito, con un tonfo sinistro. Un’altra si sarebbe come minimo spaventata. Noi nel vederla sì. Lei no. Con un gesto lento, inventato lì, e pure mentre stava cantando uno dei momenti più sottili, la preghiera “Pace mio Dio”, Anna Netrebko si è lentamente ripiegata a terra, ha raccolto con intensità rituale il relitto di scultura, ha pensato per un attimo di riposizionarlo, e poi invece, dolentissima, lo ha depositato a terra.
Ecco come un’interprete può far evolvere in progress uno spettacolo. Peraltro molto dettagliato e ricco, brulicante di dettagli nelle scene di massa, supportate dai costumi eloquenti di Silvia Aymonino, le luci perfette (persino dal lampadario centrale) di Alessandro Verazzi e i movimenti di assieme un po’ ginnici ma funzionali di Michela Lucenti. Al contrario essenziale e diretto sui protagonisti. Niente enfasi, tanta ironia. Una rarità, all’opera. La compagnia di classe A ha difeso bene le posizioni, svelando qualche stanchezza perdonabile: dopo il soprano, superlativo il baritono Ludovic Tézier, il tenore dagli acuti di perla Brian Jagde, la Preziosilla di Vasilisa Berzhanskaya, il giovane Padre Guardiano di Alexander Vinogradov. Menzione speciale per la comicità naturale di Marco Filippo Romano. Una lode per l’intonazione salvifica nel primo concertato all’alcade di Huanhong Li e applausi Xhieldo Hyseni, allievo della Accademia scaligera, nel ruolo minuscolo ma ben cesellato del chirurgo. Uno dei momenti di comicità amara, tipico di Verdi. Dove il pubblico a qualsiasi latitudine inevitabilmente ride (ma si dovrebbe piangere).
Di Orchestra e Coro tirato da lucido da Alberto Malazzi si è ampiamente già scritto: qualità Scala, anzi, smalto super lucidato da 7 dicembre. Tenuta praticamente impeccabile. Rimane qualche dubbio sulle intenzioni musicali, sulle rifiniture, sul dialogo ritmico voci-palcoscenico, su certi volumi un po’ clangorosi, sproporzionati verso piatti e cassa, comprenti quella tessitura sinfonica che Verdi ha sempre ben presente e che lo rendeva europeo, non solo italiano nello stile. Vince Verdi. E soprattutto, quando così in vetrina, quanto è politico. Unico, davvero. Forse per questo, davanti a tanta forza della sua critica severa, dei suoi dubbi, qui in particolare sul senso delle guerre, i rappresentati politici presenti in sala per una volta hanno taciuto.
Fonte: Il Sole 24 Ore