Gli Osservatori della Cultura, un progetto mai compiuto
A livello nazionale, il primo intervento in materia risale appunto al 1985, anno in cui venne approvata la Legge n.163 “Nuova disciplina degli interventi dello Stato a favore dello spettacolo”, che istituiva l’Osservatorio dello Spettacolo afferente all’allora Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Furono poi le Regioni a dare seguito a questa iniziativa, a partire dalla Lombardia che nel 1989, grazie alla collaborazione con l’IReR (Istituto Regionale di Ricerca), istituì il primo Osservatorio Culturale della Regione. A questo seguì, quasi un decennio più tardi, l’istituzione dell’Osservatorio Culturale del Piemonte (OCP) nel 1998, avvenuta attraverso un protocollo d’intesa che coinvolgeva la Regione Piemonte, l’IRES (Istituto di Ricerche Economico-Sociali), la Fondazione Fitzcarraldo, la Città di Torino, la Compagnia di San Paolo, la Fondazione Cassa di Risparmio di Torino e l’AGIS. Infine, nel 1999, nacque l’Osservatorio dello Spettacolo della Regione Emilia-Romagna, che si sviluppò a partire dall’Osservatorio permanente sull’Economia della Cultura attivato nel 1996, gestito dalla Regione in collaborazione con l’ATER (Associazione Teatrale Emilia-Romagna).
Il ruolo delle regioni e la riforma del Titolo V
All’inizio degli anni 2000, la crescita degli Osservatori culturali regionali conobbe una significativa accelerazione a seguito della ridefinizione delle competenze tra Stato, Regioni ed Enti Locali introdotta dalla riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001. Con tale riforma, la gestione dello Spettacolo fu attribuita alla legislazione concorrente tra Stato e Regioni, conferendo al settore una nuova autonomia e fornendo uno slancio decisivo alla creazione di un sistema informativo regionale incentrato sul modello degli Osservatori. Grazie a questa nuova autonomia, nel 2004, la Conferenza delle Regioni avanzò una proposta di legge (Proposta di Legge recante i principi fondamentali per lo spettacolo ai sensi dell’articolo 117, comma 3, della Costituzione), attribuendo alle Regioni e alle Province Autonome il compito di condurre attività di osservazione e monitoraggio, inclusa la creazione di banche dati dedicate alla produzione e alla promozione dello spettacolo a livello regionale. Nel 2006, il Coordinamento delle Regioni, in collaborazione con Anci -Associazione Nazionale Comuni Italiani e Upi – Unione delle Province d’Italia, presentò il progetto interregionale “ORMA – Osservatori Regionali e collaborazione con l’Osservatorio Nazionale nel settore delle politiche per lo spettacolo”, al quale aderirono 19 soggetti tra Regioni e Province Autonome che si impegnarono a finanziare l’iniziativa insieme al Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Questo progetto, realizzato con l’Istat, mirava a promuovere la creazione di nuovi osservatori regionali e a potenziare quelli esistenti, in collaborazione con un Osservatorio Nazionale afferente al Ministero. Si tratta, a tutti gli effetti, del tentativo più concreto e fattivo di realizzare un coordinamento centralizzato per la gestione di questi centri privilegiati di osservazione, ma che non è mai giunto a compimento. Solo nel 2022 il legislatore nazionale ha ripreso in mano la questione degli Osservatori con l’emanazione della legge “Delega al Governo e altre disposizioni in materia di spettacolo”. Questa legge, per la quale non sono mai stati pubblicati i decreti attuativi, prevedeva tra le varie misure la creazione di un sistema nazionale a rete degli osservatori dello spettacolo.
Una necessità ineludibile
Attualmente, sul territorio nazionale operano 14 Osservatori culturali regionali. Oltre a quelli già citati della Regione Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte, si sono aggiunti gli Osservatori delle Marche, del Trentino Alto Adige, dell’Abruzzo e del Friuli Venezia Giulia, insieme a quelli della Puglia, Sardegna, Campania e Sicilia, e, più recentemente, della Basilicata, Veneto e Toscana. Persiste di fatto la mancanza di un Osservatorio della cultura multisettoriale di emanazione centrale, la cui esigenza è emersa con forza durante la crisi pandemica del 2020, quando lo Stato si è trovato a dover progettare misure di supporto e di ristoro a lavoratori e imprese del settore che di fatto non conosceva.
Ma qual è il vero dramma di non avere un Osservatorio Nazionale dedicato alla cultura? Innanzitutto la difficoltà di mettere in dialogo le diverse fonti statistiche che attengono al settore culturale e creativo, non sempre allineate rispetto alle tempistiche, alle finalità e sul versante metodologico. E sebbene il lavoro di alcuni centri privati di ricerca, come Fondazione Symbola e le Associazioni Federculture e Civita, supplisce in qualche modo a questa mancanza producendo attività di ricerca e monitoraggio periodico, essi non dialogano né con il Ministero né tra di loro perché hanno ruoli e funzioni diversi. Fermo restando il ruolo fondamentale che svolge l’Istat in tal senso, questa situazione costituisce insomma un ostacolo per una gestione unitaria e strategica delle informazioni, riducendo le possibilità di valorizzare il ruolo della cultura come leva per affrontare le sfide globali. Non è però necessario ripartire da zero, sarebbe sufficiente migliorare la cooperazione tra i soggetti regionali e nazionali, in sinergia con i decisori politici, per facilitare l’attuazione di politiche culturali più organizzate e, auspicabilmente, più efficaci.
Si ringrazia per la collaborazione e le informazioni fornite Antonio Taormina, docente di Progettazione e gestione delle attività di Spettacolo all’Università di Bologna.
Fonte: Il Sole 24 Ore