Hunter Biden, il figliol prodigo che faceva affari in Ucraina e Cina usando il nome di papà
Le «accuse ingiuste», il complotto degli avversari politici, l’uso distorto della giustizia e dei processi: le motivazioni con le quali Joe Biden ha concesso la grazia al figlio Hunter assomigliano molto alla «caccia alle streghe» evocata da Donald Trump per difendersi nei processi anche durante la campagna elettorale.
Certo, il paragone non tiene se si guarda alle accuse e alle condanne: quelli di Hunter Biden sono reati per i quali difficilmente si va in carcere negli Stati Uniti; Trump nei processi, ormai cancellati con un colpo di spugna dopo la vittoria al elettorale, era accusato di reati gravissimi come avere tentato di ribaltare la sconfitta nel voto del 2020, o avere aizzato i suoi sostenitori che assalirono il Parlamento nel gennaio del 2021. Senza dimenticare la condanna penale per falso in bilancio – mai accaduto a un ex presidente nella storia Usa – e quelle in sede civile.
Una grazia «piena e incondizionata»
Eppure anche l’anziano presidente Biden, come gli avvocati di Trump, ha fatto di tutto per aiutare e difendere quel «figlio sfortunato» rimasto segnato da piccolo, assieme al primogenito Beau, dall’incidente stradale nel quale morirono la madre e la soerlla minore. Un figlio distrutto da anni di abusi di droghe e alcol, rinato con la disintossicazione, ma passato attraverso scandali che hanno sfiorato la Casa Bianca.
La grazia «piena e incondizionata» concessa da Joe Biden al figlio Hunter riguarda tutti reati che «ha commesso o potrebbe aver commesso» in un periodo insolitamente lungo, «dall’inizio del 2014 alla fine del 2024».
Il 2014 è l’anno in cui Hunter entrò a fare parte del Cda della società energetica ucraina Burisma, con una retribuzione di 50mila dollari al mese, mentre il padre era alla Casa Bianca, come vicepresidente di Barack Obama, con delega per l’Ucraina.
Fonte: Il Sole 24 Ore