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Il canto della terra degli astronauti
Due cosmonauti e quattro astronauti, due donne e quattro uomini, riposano a mezz’aria nei loro sacchi a pelo. Sospesi come capodogli addormentati mentre fuori dai finestrini il Sole sorge e tramonta ogni ora e mezza. «Così uniti e così soli che ogni tanto persino pensieri e mitologie si fondono». Sono a 400 chilometri di altezza dal suolo nella vecchia Stazione spaziale internazionale, un ostello in orbita attorno alla Terra da ormai venticinque anni. Ammaccato, fissurato, démodé. Sotto di loro (o sopra, è lo stesso) vortica un enorme uragano, gonfiandosi sempre più dell’aria arroventata dal Pacifico. Due russi, un italiano, una giapponese, un’inglese, un americano: probabilmente uno degli ultimi equipaggi a partecipare a quell’esperimento di pace che è stata l’Iss, l’astronave orbitante. Non solo perché una crepa di un millimetro ha incrinato lo scudo di titanio che li separa dal risucchio dell’universo, ma perché una crepa ben più profonda si è insinuata in quell’idea di come stare al mondo che ha visto collaborare le maggiori potenze di allora. La fine di un’epoca.Eppure, lassù, tra gli astronauti, i conflitti non ci sono. Per sopravvivere dipendono l’uno dall’altro, respirano l’aria che hanno respirato gli altri, bevono l’urina purificata di tutti. Si sfiorano quando passano nei corridoi che uniscono i 17 moduli in cui abitano per molti mesi. La Terra, bellissima, cangiante, «un gioiello sospeso, così sorprendentemente luminoso», volteggia fuori dai finestrini, senza che si vedano confini, Paesi: «solo una sfera rotante che non conosce possibilità di divisioni, tantomeno di guerre».«A volte sognano gli stessi sogni (…). Lo spazio puro è una pantera, selvatica e primordiale; la sognano aggirarsi ferale tra loro» scrive l’autrice britannica Samantha Harvey in Orbital, che ha vinto il Booker prize 2024 all’unanimità. Il romanzo racconta una giornata qualunque di ottobre nella stazione spaziale internazionale, scandendola attraverso le sedici orbite che l’astronave percorre in ventiquattro ore – precipitando a più di ventisettemila chilometri orari . Sedici volte spostandosi da un Polo all’altro, ogni volta un poco più a Est, ogni volta vedendo il Sole apparire e poi scomparire. La racconta trascrivendo i pensieri di quell’organismo composito che è l’equipaggio della Iss, intrecciandoli all’apparire delle costellazioni boreali e australi, allo scorrere degli incantevoli paesaggi terrestri. «L’orlo della Terra» che si tinge di «un malva chiaro e luminoso», «l’Africa che risuona di luce», «le fulve terre del meridione dopo un’estate senza pioggia», «il verde e il rosso delle aurore che mutano e ondeggiano serpeggiando (…), frenetiche e magnifiche come una creatura intrappolata». Aurore che gli astronauti osservano appiccicati ai vetri come falene. L’ordinaria straordinarietà di un momento qualsiasi. Harvey rifiuta, nell’intonare un canto della Terra che è un canto di amore e di dolore, di ricorrere a sfide e conflitti per ancorare chi legge alla trama. Quel che ha da offrire è la bellezza, distillata in parole esatte e suggestive, che ha osservato in centinaia di ore di immagini registrate dalla Iss. La trama procede linearmente, seguendo il passare del tempo, che inebria col rapido susseguirsi di buio e luce. È ritmata dai pasti consumati sospesi come ippocampi, dalle attività di ricerca e manutenzione che gli astronauti devono compiere ogni giorno, mentre «fuori, la Terra rotola via in una massa di luce lunare» e «i ciuffi di nuvole sul Pacifico dipingono di cobalto l’oceano notturno». S’intreccia ai pensieri degli astronauti resi più leggeri e filosofici dalla microgravità, dall’incanto di quella «biglia di vetro nello spazio nero pece» e dalla distanza dai dolori e dagli affetti più profondi. A inquietudini quotidiane ed eterne. O eccezionali, come quando Chie, la giapponese, arriva a cena e dice: «È morta mia madre», diventando rossa in viso, «come se pronunciare quelle parole avesse infiammato il suo dolore». La madre che una volta, dandole uno scatto di sé mentre guarda contrariata il cielo il giorno dell’allunaggio, aveva forse voluto dirle: «ecco gli uomini che sbarcano sulla Luna – vedi una sola donna tra loro? Tantomeno una donna non bianca, non americana, lo vedi, è una parata di uomini nel pieno della loro mascolinità, con i loro razzi e propulsori e payload e gli occhi del mondo puntati addosso – il mondo è così, un parco giochi per soli uomini (…) non metterti in competizione, perché qualsiasi tentativo finirà per farti sentire scoraggiata, inferiore e repressa, perché correre una gara che non potrai mai vincere, perché metterti nelle condizioni di fallire? (…) Ricordati che non sei inferiore e tienilo impresso nel cuore e vivi la tua vita insignificante meglio che puoi, con dignità».Storditi dalla luce che tramonta sedici volte in un giorno, dal tempo che si sfracella in un pugno di coriandoli, dalla propriocezione che manca, chiusi in un’«orbita di dolce indifferenza» gli astronauti indugiano tra pensieri terrestri e celesti. «Non c’è un centro, solo un ammasso vertiginoso di cose danzanti» pensa qualcuno. «Cosa possiamo fare nella nostra solitudine assoluta se non guardare noi stessi? Esaminarci in interminabili attacchi di affascinata distrazione, innamorarci e odiarci, fare di noi stessi teatro, mito e culto (…) Sentire il fastidio di un desiderio di appagamento che non riusciamo a soddisfare». Uomini in lattina, si domandano se sono eroi o idioti, se queste «navicelle falliche sparate nello spazio» non siano «le più arroganti di tutte, i totem di una specie ubriaca di narcisismo». E mentre guardano l’uragano caricarsi di un’inedita violenza, si rendono conto di vedere un mondo «plasmato dall’incredibile forza dell’avidità dell’uomo, che ha cambiato tutto, le foreste, i poli, le riserve, i ghiacciai, i fiumi, i mari, le montagne, le coste, i cieli». Eppure, «quando il pianeta galoppa nello spazio e tu gli galoppi dietro nella luce e nel buio con il cervello ebbro di tempo, nulla può finire. Non ci può essere una fine, soltanto cerchi». E allora solo quando Chie tornerà, sua madre sarà morta davvero. «Mai fermarsi», scrive Harvey, che se talvolta indugia in riflessioni banali, affascina con la bellezza delle sue descrizioni geografiche e meteorologiche, mostrando – nella scia di Lucrezio, Dante, Leonardo – come la natura e il cosmo possano essere fonte di meraviglia anche quando sono raccontate con le parole della scienza. Che scienza e letteratura non sono sistemi di comprensione del mondo antitetici, ma si compenetrano e completano a vicenda.
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Samantha Harvey
Orbital
Traduzione di Gioia Guerzoni NN, pagg, 176, € 18
Fonte: Il Sole 24 Ore