Il carattere ambiguo, aperto a ridefinizioni, e vitale della scultura

Il carattere ambiguo, aperto a ridefinizioni, e vitale della scultura

La scultura italiana contemporanea è protagonista in un’esposizione intitolata «Senza mai sfiorire. Densità e leggerezza nella scultura italiana contemporanea» a Palazzo Collicola a Spoleto fino al 23 febbraio, curata da Saverio Verini direttore dei Musei Civici di Spoleto. L’esposizione si inserisce in un filone di ricerca che, a partire dalla storica manifestazione Sculture nella città del 1962, curata di Giovanni Carandente, ha visto Spoleto affermarsi come punto di riferimento per la scultura contemporanea. Concentrandosi su una generazione di artisti nati negli anni Settanta, la mostra presenta una selezione di opere che, attraverso l’esplorazione della materia e dello spazio, danno vita a un percorso espositivo capace di coniugare interpretazioni differenti del linguaggio scultoreo. Il curatore, Saverio Verini, oltre a raccontarci come è stata realizzata l’esposizione affronta il tema della scultura nella contemporaneità tra il virtuale e l’immateriale e il ruolo dei materiali nelle sculture contemporanee.

La mostra vuole far leva sulla singolarità di ogni lavoro: nella selezione degli artisti quale aspetto è stato premiante? 
Nell’organizzare il percorso espositivo sono partito da artisti di cui ammiro profondamente le pratiche e che, a mio avviso, ben rappresentano la molteplicità di approcci di fronte al medium scultoreo. Un altro criterio adottato è stato quello anagrafico: autoimporsi un limite temporale costituiva una piccola “regola del gioco”, così da evitare un allargamento potenzialmente infinito, oltre al fatto che quella della ricognizione generazionale si poneva in continuità con un’esposizione realizzata nel 2023, proprio all’inizio del mio mandato di direttore dei Musei Civici di Spoleto. Quella mostra, intitolata «La sostanza agitata», prendeva in considerazione le opere di 11 artisti sotto i 35 anni di età, quasi tutti nati negli anni Novanta, che lavorano con una logica che, a mio avviso, può essere definita scultorea. Fin dall’inizio del mio incarico a Spoleto mi è sembrato fisiologico concentrare l’attenzione su un mezzo espressivo – la scultura, appunto – che è nel Dna della città da molti decenni; penso all’esperienza pionieristica di Giovanni Carandente con «Sculture nella città», alcune delle quali sono ancora oggi inserite nel contesto urbano, ma anche alla presenza di una figura come Leoncillo, tra i più importanti interpreti del linguaggio plastico del XX secolo e spoletino di nascita, di cui la collezione di arte contemporanea di Palazzo Collicola conserva numerose opere. Infine, lo spazio è stato sicuramente fondamentale nell’orientare la selezione dei lavori: gli ambienti del Piano nobile mi hanno suggerito molte scelte e accostamenti, spesso dettati da corrispondenze e analogie tra l’opera e la stanza che la accoglie.

Cosa possiamo capire e apprezzare dall’opera di ogni singolo artista?
La selezione delle opere, oltre alla capacità di inserirsi nella sale dell’Appartamento nobile, di generare dialoghi visivi ed estendere le reciproche possibilità di lettura (del luogo e dell’opera), è stata dettata dalla loro “pregnanza”, se così si può dire. Mi riferisco alla possibilità da parte di ogni lavoro di rappresentare la poetica dell’autore che l’ha realizzata: per esempio, nel caso di Fabrizio Prevedello, il suo «Rosone» esprime pienamente l’interesse dell’artista per materiali di origine industriale, “brutali”, che egli preleva, assembla e ci restituisce dotati di una loro grazia. Oppure Francesco Arena, che spesso e volentieri combina materiali estremamente pesanti e di origine naturale ad altri che si riferiscono al carattere effimero delle azioni umane (nel caso dell’opera in mostra, un masso di pietra lavica all’interno del quale sono innestati due quotidiani). Insomma, ogni lavoro può essere visto come una sintesi delle pratiche degli artisti invitati, permettendone di apprezzare le peculiarità, anche grazie al fatto che non ci sono dialoghi ravvicinati tra opere, ma ognuna “abita” una singola stanza, offrendo una maggiore possibilità di concentrazione al visitatore. Oltre a ciò, naturalmente, tutte le opere rispondono anche al tema della mostra, che in ognuna di esse risalta in modo differente.

E a proposito del tema, densità e leggerezza nella scultura italiana contemporanea, come è possibile combinare questi due aspetti nella scultura?
I lavori esposti all’interno di «Senza mai sfiorire» lo testimoniano in maniera piuttosto chiara. Le opere, pur nelle differenze formali e costitutive, trovano un denominatore comune nella coesistenza – in ogni opera – di due tensioni opposte: da una parte, dei richiami alla tradizione scultorea (una certa monumentalità, l’utilizzo di materiali “classici” come il bronzo e il marmo, il senso di gravità); dall’altra, degli elementi che sembrano contraddire quella stessa tradizione, in favore di leggerezza, formati ridotti, impiego di elementi deperibili ed effimeri. Mi piaceva l’idea che tutte le opere contenessero al loro interno questa felice contraddizione e che la esprimessero in modi molto diversi tra loro, evitando ridondanze e, spero, risultando sempre sorprendenti nel loro succedersi stanza dopo stanza. Ci tengo anche ad aggiungere che altri si sono soffermati su questa “qualità” – direi una forma di ambiguità – della scultura: per esempio Simone Menegoi, autore di una mostra fondamentale sul tema («Light Sculpture», del 2005), oppure Lorenzo Benedetti con il progetto espositivo «Anche le sculture muoiono» (2015).

Una provocazione: la scultura esiste ancora nel modo virtuale e immateriale? 
Io penso che sia proprio in virtù dell’irruzione della dimensione virtuale nelle nostre vite che la scultura, con la sua presenza irriducibile, possa offrire un’esperienza incisiva e vitale di ciò che ci circonda. Questa è una convinzione che riguarda non solo opere dalla spiccata connotazione plastica e tridimensionale, ma l’arte in generale: recarsi in uno spazio espositivo, attraversare un luogo reale e percepirlo con i nostri sensi (percepire le opere, certamente, ma anche la qualità delle luci, le superfici su cui camminiamo, persino gli odori…) sono azioni a cui spero non rinunceremo mai.

Fonte: Il Sole 24 Ore