Il decennio di svolta per le italiane
Il basco calato sulla fronte, il maglioncione di lana grossa, il viso di ragazza acqua e sapone con un enorme cartello appeso al collo e la scritta «Cari compagni, non avete capito niente, dei lavoratori ne vedete solo la metà»: gli anni 70 delle donne sono tutti in immagini come questa, oltre a quelle dei girotondi, delle mani che alludono alla vagina, del profluvio di slogan uno più efficace dell’altro. I destinatari che “non hanno capito niente” sono gli uomini, a partire da quelli attivi nel sindacato o in un partito in cui le donne si riconoscono ma che non le considera. Il che è ancora più inaccettabile.
Sono immagini di un decennio di battaglie che hanno contribuito a cambiare la società e su cui si è scritto molto, che qui scorrono come in un film in bianco e nero, potenti ed eleganti, accompagnate da parole che di quel film sono la puntuale sceneggiatura: Covando un mondo nuovo. Viaggio tra le donne degli Anni Settanta è un libro da conservare, consultare, sfogliare. La misura è indovinata (la forza delle foto integrata dalla chiarezza delle parole), adatta agli adulti che sanno – e vogliono reimmergersi in quella stagione – e a quelli che non sanno, perché il racconto non dà nulla per scontato. Soprattutto è perfetto per le ragazze e i ragazzi: si renderanno conto che siedono sulle spalle di chi ha ha combattuto per loro riempiendo le piazze.
Covando un mondo nuovo contiene lo sguardo di chi c’era e ha fermato quei momenti: Paola Agosti, classe 1947, che ha intercettato nei suoi scatti i volti, gli slogan, le strade, le masse di donne che si organizzano, si uniscono, urlano mosse da un unico sentimento che tiene insieme tutti gli altri. Contro che cosa si ribellano? Contro il patriarcato, è fin troppo facile. Contro la reclusione tra quattro mura, loro che angeli del focolare non si sentono o, tutt’al più, vogliono decidere liberamente se e in che misura esserlo. Contro le leggi che vietano: la vendita dei contraccettivi, il divorzio, l’aborto (“L’utero è mio e me lo gestisco io”). Contro una sessualità che non vivono liberamente, anzi, la subiscono, peggio, non sanno bene come esprimerla perché da sempre non è chiesto alle donne di esprimerla. Contro le iniquità economiche: lavori sottopagati, licenziamenti immediati quando restano incinte, incombenze casalinghe e cura della famiglia da cui sono schiacciate. In una parola, si ribellano contro la certezza di una condizione impari che non è più tollerabile.
Benedetta Tobagi, trent’anni più giovane di Agosti, ricostruisce lo scenario, ci porta nei luoghi (via del Governo Vecchio a Roma, il teatro della Maddalena, la Libreria delle Donne a Milano, i consultori autogestiti), ricorda i giornali che erano un punto di riferimento («Noi donne», «Effe»), dà visibilità ai nomi, rievoca i processi legislativi che faticosamente – e a prezzo di inevitabili compromessi – cambiano le cose. C’è una parola cardine da cui discendono convinzioni e azioni: è “femminismo”, con tutto il vocabolario che si porta dietro (autocoscienza, emancipazione, liberazione, differenza, il personale è politico, autodeterminazione ecc) e i contrasti che vi si generano: dal separatismo sì/separatismo no alla lotta per la depenalizzazione dell’aborto portata avanti dalle radicali in opposizione alla conquista della legge poi approvata (la 194).
Una battaglia, quest’ultima, condotta non solo sul piano normativo ma anche medico. Lo spiega bene la voce della torinese Tullia Todros, specializzanda in ginecologia agli inizi del decennio, quando «i ginecologi sono praticamente tutti maschi, alla specializzazione eravamo 4 donne su 80 uomini». Giovane madre, militante di Avanguardia operaia e femminista, poi primaria di ginecologia e ostetricia all’ospedale Sant’Anna, ha raccontato a Benedetta Tobagi quanto fosse importante la condivisione di esperienze e informazioni: «Anche noi medici impariamo, dalle altre donne, insieme a loro», interpretando il servizio pubblico quale servizio alla persona e nel solco dei diritti (quello che le italiane si aspettavano, reclamavano, e non accadeva, come denuncia lo striscione “ginecologi, rifiutate l’aborto terapeutico gratis per fare quello clandestino a 800mila lire”).
Fonte: Il Sole 24 Ore