Il romanzo del fiume e della foresta

«Vivere alla fattoria è una forma di sacerdozio. I contadini sono convinti che la terra li protegga dalla barbarie. In realtà li rende schiavi». Rimasta orfana quando era molto piccola, Almanda cresce con una coppia di “zii” che lavorano e rilavorano senza posa la terra strappata alla foresta in un villaggio di coloni sulle sponde del lago Pekuakami, nella penisola del Labrador (Canada orientale): «un mare tra gli alberi. Acqua a perdita d’occhio, grigia o blu a seconda dell’umore del cielo, attraversata da correnti gelide. Il lago è al tempo stesso bello e terribile. Smisurato. E la vita vi è tanto fragile quanto ardente».

Ha quindici anni e sta mungendo le mucche quando vede un giovane nativo americano discendere il fiume in canoa. I loro sguardi si incrociano, quella sera e poi altre ancora. Almanda si innamora di quello che è per lei «una sorta di vagabondo trasportato dal vento»: Thomas. «Ero giovane, lo so bene. Circondata da esseri prigionieri delle proprie terre, scoprivo che qualcuno era libero». Chiede a Thomas di portarla con sé nei territori di caccia invernali, sulle montagne oltre le quali «si stendeva a perdita d’occhio la bianca pianura del Grande Nord». Con la canoa risalgono il lago e poi il fiume Péribonka: «a destra, l’acqua. A sinistra, una linea di sabbia e rocce si stagliava davanti alla foresta. Era per me il passaggio fra due mondi, immersa in un’ebbrezza mai provata prima». Imparerà che l’essere umano non è superiore a nessun altro; che la paura paralizza, mentre il timore invita alla prudenza; che apprendere la costanza è un percorso lungo; imparerà a cacciare e a rispettare la preda: è lei che decide di darsi. «Offrendo la propria vita mush (l’alce, ndr) permette al cacciatore di vivere. Bisogna ringraziarlo», le spiega Thomas. Così gli innu, cacciatori, pescatori, raccoglitori nomadi, restituiscono dignità all’animale, rendendo volontario ciò che è inevitabile. Imparerà l’innu-aimun, che ha solo otto consonanti, sette vocali e quindici suoni distinti. Una lingua in cui non esiste il femminile o il maschile, si distingue tra l’animato e l’inanimato. Imparerà a fare il cibo delle nevi: una melassa dal gusto d’acero che i nativi sapevano cucinare a partire dalla resina degli alberi, assicurandosi un alimento zuccherato nel pieno dell’inverno.

La voce narrante di Kukum, romanzo dello scrittore e giornalista innu Michel Jean, è quella di Almanda, la sua bisnonna. Ormai vecchia, ricorda la sua giovinezza. E quello che inizia come il racconto dell’amore per Thomas progressivamente si muta nel racconto dell’amore anche per la foresta, il fiume, il lago, «l’aria carica dell’odore dei pini», «le migliaia di cuori di taglie e forme diverse» che battevano all’unisono attorno a lei e per il tempo che vi scorre in mezzo, innescando il circolare mutamento. Sono il popolo innu e la sontuosa natura sub-artica i veri protagonisti del libro, che poi si trasforma ancora, questa volta in un’elegia. Se il padre di Thomas aveva conosciuto il mondo prima dell’arrivo dei bianchi, i suoi figli dovranno adattarsi a una vita aliena. Il disboscamento diviene intensivo. Racconta Almanda che «quando vedeva un taglio raso Thomas si infuriava: ”Non gli basta tagliare gli alberi – gridava – devono distruggere tutto, gli uccelli, gli animali, abbattono lo spirito stesso della foresta!”» La donna osserva che questo è il ragionamento di un innu che sa di tornare sempre negli stessi luoghi. «Il taglialegna, invece, cammina diritto davanti a sé, senza mai guardarsi indietro. Insegue il progresso». Il racconto si fa drammatico e commovente quando, finita l’estate, la famiglia di Almanda sale sulle canoe per tornare nei territori di caccia invernali ed è presto investita da un odore nauseante. Vedono davanti a loro migliaia di tronchi tagliati galleggiare sul lago Pekuakami: «una massa immensa, scura e ondulata». Impossibile risalire il fiume: «dinanzi a noi, il Péribonka, soffocato dal peso dei tronchi, vomitava la foresta nel lago».

Le cartiere divorano i boschi, le dighe creano «una sorta di Atlantide innu», i nativi non possono più andare in giro: ora la terra appartiene alla “compagnia”. Ma le tende non sono adatte per svernare sui bordi del lago spazzati dal vento e nella riserva non c’è abbastanza selvaggina per tutti. Il governo distribuisce sussidi. I nativi passano da una vita in movimento a un’esistenza sedentaria, dall’autonomia alla dipendenza: «non ne siamo mai più usciti». Dopo le terre, gli portano via anche i figli. Tutti i ragazzini tra i sei e i 15 anni sono deportati nei collegi («Provate a immaginare un villaggio senza bambini»). Qui è vietato anche parlare la propria lingua. «I preti punivano quelli che si azzardavano a farlo. Un altro ponte tagliato tra le generazioni. Hanno creduto di farne dei bianchi privandoli della loro lingua. Ma un innu che parla francese resta sempre un innu. Con una ferita in più». Denutriti e maltrattati, spesso abusati dai preti, molti bambini muoiono. Chi torna a casa non sa più chi è (l’ampiezza di questa tragedia è venuta alla luce solo nel 2021, due anni dopo l’uscita del libro, quando sono state recensite migliaia di fosse comuni dove erano stati gettati decine di migliaia di bambini nativi). Alcuni si perdono nell’alcol, altri si ammazzano. Altri ancora resistono, come Jean, che il mondo degli avi lo ha ricostruito, anche per noi, a parole, colmando i vuoti dei ricordi smarriti con la fantasia.

Michel Jean

Fonte: Il Sole 24 Ore