Il terremoto sul sentiero del poeta

Il terremoto sul sentiero del poeta

Se hai delle doti devi fartele perdonare», diceva spesso Pierluigi Cappello, che era cresciuto a Chiusaforte, paese di 500 abitanti nel Friuli più orientale, dove i lavoratori, come suo padre, sono spesso frontalieri. Pierluigi doveva farsi perdonare la sua abilità a scuola e pintian (in italiano), che spinse una professoressa a regalargli Addio alle armi. Lo ricorda Alessandro Fo nella sua prolusione a Come un sentiero di matita, antologica di ciò che è stato Cappello, poeta (spiegato da Gian Mario Villalta), uomo di cultura e amico (attraverso Eraldo Affinati, che cita Seamus Heaney: «il monaco devoto in cella che sporge il palmo fuori dalla finestra»).

Chiusaforte si trova nel Canal del Ferro: i toponimi dicono già molto dell’asperità di questi luoghi ombrosi, con le montagne grigie, a picco, e il freddo d’alta quota, pur essendo in piano. Chi non parla friulano qui è fuori e Pierluigi lo parlava e lo scriveva magnificamente. La sua poesia più bella è per me: Jo, ch’o ti samei a mi/ma par semeâmi miôr/semence mai vignude/a flôr, fuei vueit, intîr/misure dal pinsîr… Io, che ti assomiglio a me, ma per assomigliarmi meglio, semenza mai venuta a fiore, foglio vuoto, intero, misura del pensiero. Cappello scrive con la sua lingua piena, carica di esse rotonde, in battere e in levare netto, geometrico. Il friulano di Pierlugi è molto diverso da quello di Pasolini, dolce e minerale della Bassa, e da quello di Ida Vallerugo e Federico Tavan, autori da lui molto amati. I chiusani hanno protetto la loro lenghe dallo sloveno medievale, parlato nella vicina Val di Resia, e dalle ondate dei mongoi, i cosacchi che nella Seconda guerra mondiale attraversarono queste terre per raggiungere il litorale. Chiusaforte ricorre spessissimo nell’opera di Cappello, dal bar all’odore di traversine e ghisa, alle gole montane, al ricordo dell’amatissimo padre che tornava ogni sera con la cerata verde da Arnoldstein, in Austria, dove faceva lo scaricatore.

Ci incontrammo il 6-6-2006, una data numericamente indimenticabile: non abitava più a “Chiusa” con la mamma e il fratello, ma a Tricesimo in uno dei prefabbricati, rimessi a nuovo, del terremoto del 1976. Aveva voluto fortemente questa indipendenza, circondato da infermieri, vicini e amici, tra cui l giornalista Paolo Medeossi, che mi inviò da lui per scrivere un articolo per il trentennale del sisma. Era nato nel 1967 fatalmente a Gemona, la cittadina che scivolò ingoiando i suoi abitanti il 6 maggio ’76 sotto l’Orcolat – il sisma di magnitudo 6.5–, perché costruita su una collina morenica. Per entrambi quelle scosse furono il ricordo più forte dell’infanzia: «Le tegole lasciarono il tetto come uno stormo di uccelli terrorizzati», scrisse Cappello nella sua autobiografia Questa libertà (Rizzoli, 2013). Avevamo in comune anche Sella Nevea, una località montana, a 18 chilometri da Chiusaforte. Per me “Sella” era una pista nera dove sfinirmi con lo sci, per lui la fine di un’altra dote da farsi “perdonare”: la velocità (100 metri in 11 secondi e 4). I chiusani non sciavano perché erano troppo poveri per comprarsi le attrezzature e lo skipass, salivano per giocare con la neve e le slitte. Si riconoscevano per il loro friulano ostico e gli schiamazzi. Pierluigi aveva 16 anni quando salì sul sedile posteriore di una moto per raggiungere Sella. Un incidente causò la morte dell’amico che guidava e inchiodò Pierluigi sulla sedia a rotelle e a una salute fragilissima. L’ospedale semiperenne si tradusse in memoria legata ai ricoveri: Con lui venivano una determinazione feroce/dalla camera alla palestra/i cento metri percorsi in cinque minuti,/con una tensione di motore imballato/tutta la forza del suo corpo spastico/ribellata alla forza di gravità… (Assetto di volo). Da quelle degenze prolungate lo aveva salvato la letteratura e un’ironia speciale, per cui permetteva a mia figlia di “guidare” la sua carrozzina come una macchina da corsa tra i prefabbricati. Gli piacevano tanto i bambini e un poco anche lui lo era. Ricordo la telefonata sovraeccitata dopo aver volato sul superleggero di un ammiratore: aveva staccato l’ombra da terra (adorava Del Giudice). L’avvento della nipote Chiara fu un’epifania di felicità e versi. Lo salvò anche l’amore: era sempre corrisposto, grazie, diceva lui, alla sua bella faccia “da prima comunione”, come amava canzonarsi mentre contemplava fiero la foto che coronava lo speciale a lui dedicato da «Poesia» di Crocetti, l’editore che credette in lui. Solo un vecchio amore, una donna senza il coraggio sufficiente, gli suscitava un’ombra: … quel nonnulla: che ti coprì le spalle/ non eri tu. (Azzurro elementare).

«Che sia un’alba» mi scrisse in quel 6/6/2006 su Assetto di volo, fresco di stampa per Crocetti, curato dalla letterata e materna amica Anna De Simone. Andavo a trovarlo quando potevo, poi sono riuscita a esserci in alcuni momenti importanti. Per il premio Bagutta nel 2007: ricordo che odiò Milano per i sampietrini che sentiva sulla colonna vertebrale. Al funerale della mamma Bruna, a Moggio, nel 2012, che si trasformò in un sereno corteo di amici. A Roma nello stesso anno, al Quirinale, per il premio Vittorio De Sica per la poesia. Il 3 marzo di quell’anno aveva cominciato a collaborare con Domenica con il racconto inedito Un dono luminoso. Da queste pagine partì l’appello per concedergli la Bacchelli, che poi ottenne, grazie anche all’aiuto di tanti amici. La sua arte fu ampiamente riconosciuta: oltre al Bagutta, il premio Viareggio-Rèpaci nel 2010 e la laurea honoris causa in letteratura all’ateneo di Udine nel 2013. Poi il fisico si debilitò ulteriormente. Ma proprio nella poesia inedita, dedicata ad Eraldo Affinati, pubblicata su queste pagine, abbiamo il suo testamento: …qualcosa rimane nostro nel dire/abbiamo inciso i nomi sul tronco/folgorato…

Fonte: Il Sole 24 Ore