In bici a Campo Imperatore, tra Mongolia e Islanda sul Piccolo Tibet d’Abruzzo

Campo Imperatore è un luogo dell’anima. L’esploratore Fosco Maraini, il padre di Dacia, quando lo scoprì negli anni Trenta lo definì “Il Piccolo Tibet”. Prima di lui l’alpinista bolognese Francesco De Marchi, anno 1573, parlava di «una piana tra altissimi monti» che «fa un bellissimo vedere». L’altopiano, tra i più vasti d’Italia, è un’ampia conca di origine glaciale. Uno scherzo geologico. Striscia di pianura che si estende come una coperta lunga 27 chilometri, larga otto, tra una cornice di monti, a un’altitudine media di 1600-1700 metri. Con il Corno Grande sullo sfondo, la cima più alta degli Appennini (2912 metri), e le altre cime del gruppo del Gran Sasso intorno – il monte Scindarella (2233), il Portella (2385), il Brancastello (2385), monte Aquila ( 2404) il Prena (2561) e il Camicia (2564) – come sentinelle a fare la guardia al Campo a cui l’imperatore Federico II di Svevia, l’uomo dello “stupor mondi”, nel 1200 attribuì il suo titolo imperiale per la bellezza.

Sulle vette dell’Appennino

Il paesaggio di Campo Imperatore è rimasto intatto. Si è salvato dal cemento perché è a un’altitudine troppo bassa per costruirci gli alberghi grattacielo che hanno devastato il paesaggio montano negli anni del boom economico. È un luogo magico e incontaminato. Patrimonio di bellezza. Quasi spirituale per i suoi vuoti, gli spazi senza fine, i suoi silenzi. A due ore di auto da Roma e a un’ora e mezza da Pescara e dal mare Adriatico. La piana è quasi del tutto spoglia di vegetazione. Non c’è nulla. Solo terra. Prati infiniti. Cime ai lati e in fondo. Con una strada al centro che sembra di stare in Arizona o in certi luoghi sperduti nel Sud del Texas. Non ci sono neanche i pali della luce a fermare lo sguardo, interrati negli anni del fascismo. Solo poche casupole, qua e là. Gli stazzi dei pastori per il ricovero degli animali, diventati punti di ristoro. E un vecchio saloon in legno dove giravano gli spaghetti western, ora punto di ritrovo obbligato per chi passa di qui. Con le fornacelle sempre accese e arrosticini da cuocere e mangiare sui tavoli all’aperto al tramonto, come se non ci fosse un doman

In 400 a pedalare alla Nova Eroica Gran Sasso

Qui da ragazzo, un po’ incosciente, con già la magìa negli occhi per questo posto e i suoi silenzi salivo da solo in inverno con una Dyane sgangherata e pesanti sci d’alpinismo. Il tempo di salire su una di queste cime quando non c’erano ancora i telefonini. E tanto bastava per essere felici. Qui sono tornato qualche settimana fa per partecipare alla Nova Eroica Gran Sasso. Una delle tante kermesse a pedali nate nel mondo attorno all’Eroica di Gaiole in Chianti. Per onorare «con la bellezza della fatica e il gusto dell’impresa», come ripete il suo fondatore Giancarlo Brocci, luoghi da favola: l’Italia bella salvata dai palazzinari che tanto ci invidiano gli americani. Sono venuti in 400 quassù per pedalare, tra strade di montagna a grana grossa e gli antichi sentieri bianchi della transumanza. Con biciclette d’epoca o più moderne gravel – ghiaia in inglese, un tipo di bici con le ruote larghe perfette per gli sterrati. Gran parte degli iscritti sono italiani. Ma ci sono anche stranieri, da 13 Paesi: dalla Svizzera alla Norvegia fino all’Australia con addirittura un ciclista con il passaporto dell’Iran. Alla Nova Eroica Gran Sasso si parte e si arriva. Non c’è un vincitore. Vincono tutti. Obbligatorio, nello scorrere lento dei chilometri sotto i pedali, di tanto in tanto, fermarsi alzare la testa dal manubrio e guardarsi attorno. Godere dei posti che si attraversano a bassa velocità: il modo migliore per entrare a contatto con questo ambiente selvaggio e fuori dal tempo. Si potevano scegliere quattro percorsi (da 46 a 137 km) con tanto dislivello (da 850 metri a 2970 metri).

L’itinerario

Siamo partiti da Castel del Monte con un sole tiepido seguendo i monti e le vallate che costeggiano la strada nel versante Sud di Campo Imperatore. Attraverso antichi borghi simili a briciole di pane gettate su un tavolo – Calascio e la sua Rocca, Santo Stefano di Sessanio, Castelvecchio Calvisio e Barisciano – per poi cominciare una lunga e lenta risalita verso il Grande Sasso che parla con le stelle. A fine estate il panorama è brullo. Il colore dominante è l’ocra della terra e il marrone dell’erba secca. Sembra di pedalare nella steppa in Mongolia, tra cime dolci come panettoni che si aprono verso la pianura: Bussi, Popoli, la piana di Navelli, con la Maiella, la montagna di Celestino V, il Papa eremita, sullo sfondo. Molta fatica e tanti sorrisi nei ristori a base di nevole, pane e salame, vino o acqua o the al posto delle bevande energetiche che si trovano nelle gran fondo, in pieno spirito eroico.

Più avanti alla fine quasi del percorso, nel ristoro del Vallone della Macina, dove Bud Spencer e Terence Hill girarono «Lo chiamavano Trinità», distribuiranno una zuppa di fagioli e salsicce per ricordare la mitica scena della mangiata. Tra gli eroici c’è anche il presidente della Regione Abruzzo Marco Marsilio, che senza portaborse e scorte, come uno qualsiasi dei 400 stamattina ha cominciato a pedalare e portato a termine la sua piccola grande impresa, da incorniciare tra i ricordi belli.

Fonte: Il Sole 24 Ore