Io medico di famiglia in un piccolo paese vi dico perché non credo nelle Case di comunità

Io medico di famiglia in un piccolo paese vi dico perché non credo nelle Case di comunità

Mi chiamo Federica Aimeri, sono un medico di medicina generale che lavora in un piccolo paese di campagna del nord Italia, in provincia di Cuneo. Sono anche una lettrice del vostro quotidiano, che rappresenta per me una fonte d’informazione autorevole. Ho letto con preoccupazione e rammarico l’articolo da voi pubblicato “Medici di famiglia, vecchio studio addio: i nuovi assunti dentro le Case di comunità”. Vorrei di seguito esprimere alcune personali considerazioni e osservazioni sull’argomento, con una buona dose d’ironia che ritengo possa contribuire a completare la poliedrica e complessa visione della situazione politico-professionale che sta attraversando la mia categoria.

Il lavoro del medico di famiglia all’apparenza è ormai così vecchio, superato. Viene svolto da medici che dopo la formazione universitaria non hanno nemmeno conseguito un corso di specializzazione, che apprendono le specificità del loro mestiere attraverso dei Corsi Regionali (retribuiti circa la metà dei loro colleghi specializzandi). Ad oggi, in effetti, è più semplice dire che cosa NON sappia fare un medico di famiglia, perché non abbiamo una certificata certezza delle sue competenze. Da contratto, i medici di medicina generale non lavorano che poche ore al giorno in ambulatorio (3 per 1500 pazienti assistiti). Non sono reperibili 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. È frequente che quando si tenta di contattarli prima via mail, poi via WhatsApp, poi via sms, poi per chiamata telefonica sul cellulare personale e in segreteria, non rispondano immediatamente. Quando non sono in ambulatorio, dove sono? Cosa fanno? Dal momento che le visite domiciliari sono centellinate, riservate ai “pazienti non trasportabili”, a quali altre attività si dedicheranno questi professionisti che lavorano “in modo autonomo e spesso troppo isolato” nelle altre ore della giornata?

Se volessimo attribuire a qualcuno la responsabilità della drammatica situazione in cui verte oggi il Sistema sanitario nazionale (e vogliamo!), i medici di medicina generale sono i migliori candidati. Gli accessi impropri in pronto soccorso? Certo, i pazienti sono costretti a questa condotta dall’indisponibilità oraria della medicina del territorio. La carenza dei posti letto per i ricoveri? Ah, se i medici di famiglia seguissero di più a casa i pazienti potremmo ospedalizzarli meno. Basta! Diciamo basta a questo sperpero di denaro pubblico! È ora che i cittadini abbiano a disposizione un medico che risponda sempre alle loro urgenze soggettive ad ogni ora del giorno e della notte, va bene uno qualunque assegnato alla fascia oraria e al luogo di contatto secondo necessità. Un medico che faccia ore e turni in una struttura, la Casa della comunità. Finalmente sapremo quali sono davvero le attività svolte dai medici di famiglia, documentate momento per momento sotto la vigile sorveglianza delle Aziende sanitarie locali.

Sarebbe meglio che i nuovi medici di famiglia, dipendenti del Ssn, però fossero anche più preparati (per questo la formazione diventa universitaria!) in modo che sappiano diventare erogatori di prestazioni: elettrocardiogrammi, spirometrie, ecografie. Un esame in più è sempre meglio di uno in meno, giusto? Vogliamo medici che facciano più screening, più prevenzione: check-up generici di laboratorio, imaging e valutazioni specialistiche che ci garantiscano di essere sani almeno per un altro paio d’anni. Da medico che lavora nel “vecchio” sistema convenzionato della medicina generale, posso solo affermare che bisogna fare molta attenzione a quello che si desidera.

L’essere “veri e propri dipendenti assunti con orari e contratti nazionali” potrebbe significare che finalmente dedicherò davvero solo 3 ore quotidiane al mio ambulatorio invece delle 9-10 che vi destino ogni giorno. Basta con tutti gli straordinari che, in quanto professionista convenzionata e non dipendente, non vengono riconosciuti. Basta con le chiamate a tutte le ore, alle 50 mail al giorno a cui rispondere, ai messaggi whatsapp e agli sms. Non oso immaginare niente di più rilassante di poter avere un orario definito, di sedermi alla scrivania nell’ambulatorio della Casa della Comunità e osservare sfilare davanti a me una serie di casi eccessivamente banali o eccessivamente complessi perché, senza conoscere la storia di una persona (conoscenza che si può acquisire solo dopo anni di frequentazione dei propri assistiti), è davvero difficile poter inquadrare correttamente e seguire una patologia complessa. Nessuno me ne farà una colpa a questo punto, se non mi spaccherò la testa sopra ai casi clinici “difficili”: il mio lavoro avrà lo scopo di valutare quanta più gente possibile e smaltire le liste di attesa, non risolvere i problemi cronici che affliggono i singoli individui.

Fonte: Il Sole 24 Ore