Isola del silenzio nel brulicante caos parigino

Intimidita dalle volute arricciate di quattro spirali levigate in pierre de taille, un’umile statuetta della Vergine di Lourdes, posata un po’ a caso, colora di bianco e celeste la nicchia della fontana di rue Éginhard. É una madonnina straniante, sproporzionata e minuta, dal tocco leggero: colpisce la vista e impregna l’aria di effluvi nostalgici. Appena sotto di lei, il catino è in secca, il muschio è arrugginito, e l’acqua appare un ricordo lontano tra le incrostrazioni di calcaree. I fasti baroccheggianti dell’église Saint-Paul-Saint-Louis, sono a pochi passi, e l’accesso al passaggio che conduce al Village Saint-Paul passa proprio dalla sontuosa chiesa parrocchiale, che troneggia sull’omonima piazza chiassosa e brulicante di turisti che, fin dal primo mattino, bivaccano ai piedi della facciata svettante, fin troppo adorna di colonne e di statue di gusto romano. Qui, alla fermata del metrò Saint-Paul (Le Marais), i parigini frettolosi, con il loro passo così tipico – cadenzato e studiato, appena staccato da terra – si danno appuntamento. I capelli arruffati, sempre stanchi e annoiati, li distingui inquieti in attesa, intorno alle inferriate dell’ingresso alla stazione. Inutile interrogarli su come si acceda al Village Saint-Paul: o non sanno, o non vogliono dire. Perché questo luogo che si protende sulla Senna, al centro della grande e caotica Île-de-France, il cuore più antico della capitale, è un’isola di silenzio da tenere in forziere: meglio che la grande massa dei turisti non sappia e invada il loro arcano riparo. No. Il Village no!

Costruito tra i giardini e le poche mura rimaste in piedi di quella che fu la reggia di re Charles V, sopravvissuto malconcio ai bombardamenti della guerra, il pacioso quartiere è risorto nei primi 80, per intervento dell’architetto Felix Gatier. Stretto tra rue des Jardins-Saint-Paul, de l’Ave Maria e Charlemagne – nomi che al solo pronunciarli emanano il dolce profumo di zenzero dei primi anni di scuola – il Village è di per sé un mondo a parte. “En dehors du contexte”. Dico un’isola, appunto! E rue Éginhard, così scura e opprimente, chiusa dai palazzi che la rendono angusta, e sovrastata dal basso soffitto che ne chiude l’accesso, la trovi appena al debutto, dietro al Passage che porta dritti al transetto, sul lato destro della chiesa madre dei gesuiti, con la fontana a chiuderne la prospettiva. Una svolta a sinistra, poi ancora passages stretti e bui, sotto alle travature di legno vivo, si susseguono tra le anguste viuzze per aprirsi poi finalmente in un gioco di corti che, a matrioska, si contengono l’un l’altra. E qui, come d’incanto, quando ormai si è del tutto dimenticato d’essere al centro della frastornante metropoli, all’improvviso, ritrovi appena più dimessa e contenuta, la Parigi della flânerie più blasé, che qui fioca, si ammanta di rallentati bisbigli. Tra le corti pavée le vetrine al pianterreno ospitano antiquari, atelier di vasai e argentieri, gallerie d’arte giapponese, un celebre negozio di raffinati tappeti persiani, le modiste di cappelli di una volta e, immancabili, alcuni piccoli ristorantini, con il menù scritto in gesso su lavagne in bella vista. Arrivati tra gli ultimi, più ariosi e spogli, gli studi d’architetti e designer. Come ovunque ormai, atroce foruncolo su un volto apollineo, l’immancabile immobiliarista, con le foto degli appartamenti in vendita sostituite da minuziosi video ben in luce, è però sempre chiuso. Poi, all’ombra rassicurante di un grande olmo, la regina di questo prolungato salotto è Venus sur Cour, raffinato brocante di anticaglie erotiche: adagiate su vecchie étagère alla rinfusa, statuette decò di donnine lascive riempiono l’ingresso contornato di rosso fiammante, tra dildo dorati e mannequins di cameriere in crestina e guêpière. Un audace pizzico di sensuale frenesia, in questo buen retiro bucolico che profuma di licheni dolciastri e di umido, mentre un silenzio irreale avvolge l’insieme. All’uscio del condominio più alto e slanciato, un maestoso gatto Blu di Russia si lecca avidamente una zampa e cerca riparo, rannicchiandosi lesto sotto a un lillà con le campane di piccoli fiori ormai tutti avvizziti. Il campanellino che porta al collare, ciondolo lucido, pigola appena, illuminando il fitto manto grigio di eco leggere e bagliori dorati. In un angolo, ad interrompere la pace diffusa, nascosto dai gelsomini e dalle rose rampicanti, un cippo ricorda che qui vennero strappati alle loro case interi nuclei di famiglie di ebrei, poi sterminati nei campi. D’intorno, le aiuole ben delineate, ma stranamente poco curate, hanno fiori di campo giallastri e violacei, e contornano il saliscendi di piani sovrapposti che caratterizzano le piccole piazze su cui si aprono le finestre dei palazzi, che tutto chiudono e sovrastano, cingendo d’assedio quadrati di cielo, che le nubi offuscano, mentre agli angoli degli slarghi sono gli alberi, con i tronchi circondati sotto alle chiome festose dalle coloratissime casette che i residenti apprestano, premurosi, per i passeri e i rari pettirossi.

Niente appare lasciato al caso, fra gli ingressi esclusivi di queste dimore eleganti e dall’apparenza effimera di rigorosa modestia, tutti annunciati da portoni sempre uguali, a losanghe di frassino, con maniglie in ottone e battenti ben lucidi, dalle teste leonine. L’esclusività del quartiere si manifesta nei dettagli, che qui proprio nulla trascurano. Panchine ombreggiate sono un po’ dovunque e, libri alla mano – le pagine che scorrono con studiata nonchalance – i parigini vi si adagiano con sinuosa e attempata eleganza. Le ragazze sbarazzine, le labbra rosate e gli occhi furtivi, incrociano le gambe ai tavolini delle poche brasserie, e guardano leste, commentando ogni arrivo, con il calice dolcemente serrato nello stelo alla mano. Hanno camicie colorate e, sedute immancabilmente l’una di fianco all’altra, rivolgono il viso al sole e ai passanti. Signore tremendamente chic, col cappello e inguantate, torreggiano al passeggio sul chiaro selciato in un via vai ondulato, superbe anaconde, con leggeri cagnolini al seguito. Gli uomini sfogliano Le Monde, con un occhio al Canard enchaîné poco in vista, e commentano lungamente, borbottando compiti e vanesii, mentre gli uccellini cinguettano. Un luogo perfetto. Lo è certamente! Non fosse che i volti dei frequentatori tradiscono, a tratti, la ricerca spasmodica di una quiete che, qui a mani profusa, a un occhio appena attento, dai visi è assai lontana. E se guardi, essi la cercano ansiosi, annegata com’è fra i rivoli ameni e foschi di questa calma così bella e artefatta. Il mondo, quello della capitale più controversa e ennuyant, è pregato di attendere fuori.

Mi torna alla mente L’udito di Paul Valery: «Ascolta quel bel suono che è continuo e che è il silenzio. Ascolta quel che senti quando non si sente nulla (…) Sibila ancora. Un sibilo sinistro…». Questo luogo mi è caro come pochi. Ho ambientato tra queste vie il romanzo Virginia nel cassetto, e per uno fra i molti azzardi della vita, ci ho comprato un pied-à-terre – anzi uno studiò, come lo chiamano qui – qualche via giusto appresso. Ci vengo spesso. La vecchia “Marais Plan”, con la copertina rosso sangue, a farmi da guida e unica compagnia. E anche oggi, ancora una volta, sono qui!

Il mio amico d’infanzia, ricco e altero, bello e fortunato, ieri si è ucciso. Così, senza preavviso. Soltanto una fune sospesa, contro il tempo che fugge implacabile. Tutto ha un senso? Solo uno fra altri, col naso al cielo, al Village cerco tregua. Ma è il nulla. Esitante, bramo anch’io appena una nicchia, che mi avvolga. Senza cornici. Perché ora lo so: struggente e impossibile, anche il silenzio irreale di quest’isola di placide corti illusorie, che amo e a cui mi abbandono rapito, mi assorda di paura. E chiuso fra questi muri d’un ocra purissimo, il mio mondo lontano si spopola di voci, per colorarsi ormai soltanto di ombre.

Fonte: Il Sole 24 Ore