La battaglia fantasma dell’umano contro la natura

La battaglia fantasma dell’umano contro la natura

Siamo la società del capitalismo dispiegato, post-fordista, post-moderna, post-. Viviamo i giorni dell’Intelligenza Artificiale, la Rete 5.0. Abbiamo sempre guardato alla nostra capacità tecnologica come a una battaglia nei confronti della Natura, da sottomettere, sconfiggere: antagonismo evoluzionista, e l’uomo il dio imbrigliatore. Eppure, dice Lorraine Daston, direttrice del Max Planck di storia della scienza di Berlino, autrice di «Contro Natura» (Timeo, trad.it. A. Martinese, 15 euro): «Non v’è tecnologia che non faccia uso dei materiali forniti dalla natura, dall’energia eolica che un tempo faceva girare i mulini a vento, al silicio dei microchip. Questo vale tanto per le altre specie quanto per gli esseri umani, dai rami e le foglie che gli uccelli usano per costruire i nidi o dal carbonio e la luce solare che le piante usano per la fotosintesi».

Il nodo delle risorse

In molti credono vi sia invece un’opposizione tra l’ordine naturale e la relazione col pianeta. Per Daston, una delle più autorevoli studiose del pensiero europeo moderno «dalla gravitazione che genera energia dalle cascate alle leggi delle radiazioni che rendono possibili i raggi X e le Tac, senza le risorse e l’affidabilità fornite dalla natura, non ci sarebbe tecnologia». Di più: «Il motivo per cui lo scenario del campo di battaglia tra natura e tecnologia è sembrato plausibile è che la natura è concepita in termini di limiti, piuttosto che di risorse. Inoltre, tendiamo a pensare (la natura) come al mitico stato di filosofi quali Hobbes e Rousseau: prima dell’esistenza della società umana, di un riparo e di vestiti, quando vivevamo di radici e bacche in un mondo… del tutto privo di tecnologia, o utensili. Ogni miglioramento tecnologico sembrerebbe una vittoria sullo “stato di natura” ma non sulla natura stessa, fonte di materie prime e regolarità che hanno reso possibili tecnologie semplici come il fuoco».

In questa battaglia fin troppo spesso l’uomo utilizza termini avulsi, prosegue Daston: «È un tropo che compare ogni volta che gli esseri umani pensano di essere parzialmente responsabili di un disastro naturale». Per esempio, «se gli alberi che trattengono il suolo e la neve nelle Alpi svizzere vengono tagliati per fare spazio a piste da sci, quando la frequenza e l’intensità delle valanghe aumentano, si vedono titoli di giornali che gridano “La vendetta della natura!”». Lo stesso: «Se i costruttori di terreni in California costruiscono case e installano linee elettriche in superficie in luoghi dove l’acqua scarseggia, il verificarsi di devastanti incendi provocati da una scintilla elettrica».

Un equilibrio delicato

Naturalmente, dice ancora Daston, «quando si dimostra che il clima sta cambiando a causa delle immense quantità di carbonio rilasciate nell’atmosfera dalla combustione dei combustibili fossili, anche questo viene descritto come “vendetta della natura”. Pochissime persone che invocano questa frase credono davvero in una natura antropomorfa che si vendica della sconsideratezza e dell’avidità umana. L’idea alla base è che noi esseri umani, come tutte le altre specie organiche, viviamo in un delicato equilibrio ecologico con il clima, la flora e la fauna locali, la topografia e la geologia. Se questo equilibrio viene alterato, le conseguenze possono essere disastrose per tutte le forme di vita adattate a questo equilibrio». Ma, v’è di più, anche nel campo delle negatività non abbiamo l’esclusiva: «Qualsiasi specie può causare uno sconvolgimento di questo tipo: quando le carpe asiatiche sono state introdotte in alcuni laghi e fiumi del Nord America, i risultati per i pesci nativi sono stati catastrofici. Ma poiché gli esseri umani si sono insediati in quasi tutte le ecologie del pianeta, e poiché le loro tecnologie sono così potenti, sono in grado di causare i maggiori disagi. E naturalmente solo gli esseri umani si sentono in colpa per le conseguenze delle loro azioni».

Eterno presente

Nel suo pamphlet Lorraine Daston dettaglia, infine, ciò che è rimasto del pensiero che ha governato nel XX secolo: «La nostra attuale incertezza sul futuro – chiosa l’autrice di «Contro Natura» anche visiting professor alla University of Chicago – non è se ci sarà un futuro, ma come sarà e, nel peggiore dei casi, se ci includerà ancora. Il problema non è che viviamo in un “eterno presente”: le persone hanno sempre vissuto nel presente, molto prima degli smartphone e dei social media. Il problema è che non possiamo più estrapolare, con sicurezza, nella nostra immaginazione dal presente al futuro. Il ritmo incalzante dei cambiamenti tecnologici, sociali e politici degli ultimi due decenni ha spezzato la continuità che collega il presente con, almeno, il prossimo futuro. Uno degli effetti della pandemia è stato porre un freno improvviso a qualsiasi pianificazione: non potevamo più dare per scontato un mondo stabile, in cui pianificare sei mesi o più. È questa incertezza che ha creato ansie per un futuro imprevedibile», in cui l’unica cosa da fare se la specie umana vorrà sopravvivere su un pianeta ostile sarà «pensare prima di agire!».

Fonte: Il Sole 24 Ore