«La boxe? È controllo della violenza»

«La boxe? È controllo della violenza»

I colori saturi, i neri pieni, i bianchi puri: scatti pittorici, densi e intensi, in cui si muovono figure, ombre, fantasmi che cercano la loro forma: così l’artista e fotografa Maria Cristina Vimercati ha deciso di ritrarre in Boxe (Dario Cimorelli editore, pagg. 124, euro 36) i pugili e gli aspiranti pugili alla Gleason’s gym di New York, celebre palestra in cui si sono allenati 137 campioni del mondo: da Sonny Liston a Mike Tyson, da George Foreman a Muhammad Ali e Larry Holmes per quanto riguarda i pesi massimi, e da Rocky Graziano a Jake La Motta per i pesi medi, oltre alle atlete Kathy Collins, Alicia Ashley e Lucia Rijker.

«La boxe è lo sport più rappresentato nel cinema americano, che di sport ne ha raccontati moltissimi, e lo è fin dagli esordi, dal cinema muto, quando ha suscitato l’interesse di Charlie Chaplin e Buster Keaton. È una metafora della vita, dell’esistenza come affermazione di sé, come confronto con l’altro, è un sistema per dare credibilità alla costruzione di un grande mito, quello del sogno americano, per cui chiunque avrebbe una possibilità di successo, anche se si parte dal nulla» ha osservato durante la presentazione del volume al Salone del libro di Torino il critico cinematografico e direttore della Mostra del cinema di Venezia, Alberto Barbera, che nel libro firma un denso saggio sulla boxe nel cinema americano, che non tralascia però neanche i più alti esempi di importazione di questa passione nel nostro cinema: da Rocco e i suoi fratelli, di Luchino Visconti (1960) a I soliti ignoti di Mario Monnicelli (1959). E che riflette sul mito, che non è «necessariamente aderente alla realtà così come si manifesta, ma di essa serve a svelarci la natura più profonda e autentica», e in particolare su quella «inesauribile fabbrica di miti che è stata e che continua a essere Hollywood». I miti «partono da elementi e porzioni della realtà, li elaborano secondo procedure narrative che approdano a una codificazione riconosciuta e accettata in virtù della propria forza estetica, e tendono a sostituirsi alla realtà stessa, non di rado esercitando un’influenza decisiva sulla stessa. Al punto che l’insieme dei miti finisce per incorporare le credenze di un’intera società e per fornire alla mitologia il compito di unificare una nazione».

Lo sguardo sulla boxe di Vimercati non è però quello cui il cinema ci ha abituato. È uno sguardo diverso, che anziché trasmettere significato, il significato lo mette in questione, lo smembra, lo indaga osservandolo da diverse prospettive. «Sono foto che fanno molto rumore, che hanno la capacità di assorbirti nell’immagine, non solo quelle in bianco e nero ma anche quelle a colori, sembra quasi di sentire i colpi sul sacco, gli armadietti che si chiudono, l’odore, l’odore di sudore, l’odore di deodorante» osserva Francesca Lavazza, che ha studiato alla New York Film Academy prima di occuparsi dell’azienda di famiglia, divenendo poi appassionata anche di arte e fotografia, e che ha deciso di sostenere la pubblicazione del libro.

«Si dice che la boxe è uno sport violento, ma la boxe è controllo della violenza» ha detto il giornalista Fausto Narducci, aggiungendo che «sono più quelli che la boxe ha salvato che quelli che ha distrutto». Nel libro firma un interessante excursus nella storia della boxe nell’arte, nella letteratura e nella canzone, soffermandosi su pugili-scrittori e pugili-musicisti, come Hemingway o Bob Dylan, che al pugilato ha dedicato la celebre Hurricane.

L’incontro di Vimercati con la palestra nella quale si sono allenati anche Robert De Niro, per prepararsi al ruolo di Jake La Motta in Toro scatenato («il film più bello sulla boxe che sia mai stato realizzato» secondo Barbera) e Hillary Swank per quello in Million dollar baby è avvenuto per caso. «Mi trovavo a New York e lavoravo per una rivista di lusso – ha raccontato l’artista – mi hanno chiesto di fare un servizio nella palestra, e così sono andata, senza sapere cosa aspettarmi. Pioveva, era scurissimo lì, era quasi sotto il ponte di Brooklyn. Sono entrata. Ci sono tornata per quasi un mese, ragionando sullo spazio architettonico e su come le persone lo attraversano. Vedevo sempre la stessa gente, veniva lì tutti i giorni, per allenarsi, per stare insieme. Dopo un po’ qualcuno mi ha sorriso». Le foto sono state scattate nel 2006. Oggi quella palestra dai muri rossi scrostati e non c’è più, si è trasferita altrove, decentrata dalla gentrificazione.

Fonte: Il Sole 24 Ore