La Consulta boccia la legge del Veneto sulla casa: è incostituzionale
Viola la Carta la legge della regione Veneto che, in maniera irragionevole, nega l’accesso all’edilizia residenziale pubblica a chi, italiano o straniero, al momento della richiesta non sia residente nel territorio della Regione da almeno cinque anni. E a salvare la norma regionale non basta la previsione secondo la quale i cinque anni possono essere calcolati nell’arco degli ultimi dieci e maturati eventualmente anche in forma non continuativa.
Il requisito della prolungata residenza impedisce, infatti, di soddisfare il diritto inviolabile all’abitazione, funzionale a che «la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana».
È quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 67, che ha ritenuto la legge 39/2017 della Regione Veneto (articolo 25, comma 2 lettera a) in contrasto con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, previsti dall’articolo 3 della Carta 3.
Il giudice delle leggi ha sottolineato che la condizione della residenza prolungata nella Regione non presenta alcuna ragionevole correlazione con il soddisfacimento dell’esigenza abitativa, di chi si trova in una situazione di bisogno.
Anzi, tale criterio contrasta con la circostanza per cui «proprio chi versa in stato di bisogno si vede più di frequente costretto a trasferirsi da un luogo all’altro spinto dalla ricerca di opportunità di lavoro».
Nel dichiarare fondata la questione di legittimità costituzionale sul punto, la Consulta ha ricordato come da tempo abbia, con la sua giurisprudenza, riconosciuto che il bisogno abitativo esprime un’istanza primaria della persona umana radicata sul fondamento della dignità.
Per questo il diritto all’abitazione è un diritto sociale inviolabile, funzionale a che «la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana».
Tra gli strumenti tesi ad assicurare questo diritto spicca l’edilizia residenziale pubblica, che consente a persone in situazioni economiche disagiate di stipulare contratti di locazione o di compravendita a condizioni agevolate, per avere accesso a beni immobili di proprietà pubblica.
Gli alloggi Erp assicurano, dunque, ai soggetti economicamente più deboli a persone, la possibilità di soddisfare in concreto il loro fondamentale bisogno.
La finalità di assicurare il diritto inviolabile all’abitazione – scrivono i giudici delle leggi – deve coniugarsi con il rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza nella selezione dei criteri che regolano l’accesso al servizio sociale.
Deve dunque esistere un rapporto di coerenza tra i requisiti di ammissione ai benefici dell’Erp e la ratio dell’istituto, il cui fine è il soddisfacimento del bisogno abitativo.
La fragilità economica
E come la Corte ha già avuto modo di sottolineare, non c’è alcuna ragionevole correlazione fra l’esigenza di accedere al bene casa, ove si versi in condizioni economiche di fragilità, e la pregressa e protratta residenza, nel territorio regionale.
Un criterio, quello della prolungata residenza, che si traduce nella previsione di «una soglia rigida che porta a negare l’accesso all’Erp a prescindere da qualsiasi valutazione attinente alla situazione di bisogno o di disagio del richiedente (quali ad esempio condizioni economiche, presenza di disabili o di anziani nel nucleo familiare, numero dei figli)».
La Corte costituzionale ha inoltre sottolineato che la residenza prolungata nel territorio regionale non considera che proprio chi versa in stato di bisogno si vede più di frequente costretto a trasferirsi da un luogo all’altro spinto dalla ricerca di opportunità di lavoro.
Il giudice delle leggi, chiarito questo, si dice consapevole del fatto che i flussi migratori comportano un costante movimento di persone, a volte solo in transito, altre con una qualche prospettiva di stabilità nel territorio nazionale, e che si assiste a un continuo incremento di coloro che competono nel far valere il medesimo bisogno rispetto a risorse comunque limitate. Tuttavia, anche questo, non giustifica la previsione del requisito della residenza prolungata per accedere agli alloggi Erp.
Edilizia pubblica strumento di tutela
Anzitutto, è evidente – scrivono i giudici «che gli strumenti di tutela dell’istanza abitativa ben possono modularsi in funzione della assenza o presenza di una prospettiva di radicamento nel territorio, procedendo dalla previsione di centri di accoglienza, adeguati al rispetto della dignità umana, all’accesso all’Erp o ad altri servizi sociali, diretti alla stipula di contratti di locazione o di compravendita e, dunque, rivolti a chi è orientato a una qualche prospettiva di stabilità nel territorio».
Ma la prospettiva di radicamento non si deduce dalla pregressa permanenza in una regione. Viceversa, conta principalmente che sia stato avviato un percorso di inclusione nel contesto ordinamentale statale.
Nè la durata della residenza nel territorio regionale non è rilevante neppure al fine di valorizzare il tempo dell’attesa per poter accedere al beneficio che realizza il bisogno abitativo. «Piuttosto – come questa Corte ha già sottolineato – il protrarsi dell’attesa può opportunamente riflettersi nell’anzianità di presenza nella graduatoria di assegnazione, in quanto circostanza che documenta l’acuirsi della sofferenza sociale dovuta alla mancata realizzazione dell’istanza abitativa e che, dunque, dà effettiva «evidenza a un fattore di bisogno rilevante in funzione del servizio erogato».
Per questo la Corte, come ha più volte sostenuto, non può che ribadire, «il carattere irragionevole del requisito della residenza quinquennale in un territorio regionale ai fini dell’accesso al beneficio dell’alloggio Erp».
L’effetto dell’adozione di un criterio irragionevole rispetto alla ratio della prestazione sociale si traduce, dunque, «nella violazione del principio di eguaglianza fra chi può o meno vantare una condizione – quella della prolungata residenza nel territorio regionale – del tutto dissociata dal suo stato di bisogno». E questo chiaramente- precisa la Consulta – può riguardare tanto i cittadini italiani quanto gli stranieri, salvo potersi ulteriormente colorare di tratti discriminatori nei confronti di questi ultimi.
Fonte: Il Sole 24 Ore