La crisi climatica ingombra i tribunali: i governi sul banco degli imputati
Se i governi si fanno beffe degli accordi internazionali sul clima e le emissioni di Co2 continuano ad aumentare, c’è un altro modo per costringerli ad agire: portarli in tribunale. È un fenomeno, quello della climate litigation, destinato a aumentare, man mano che le Ong imparano dalle cause vinte e i giudici s’ispirano ai precedenti giurisprudenziali per emettere sentenze sempre più efficaci. «La prima ondata di cause ha avuto successo quasi solo negli Usa, ma ora il fenomeno comincia ad attecchire anche in Europa», spiega Barbara Pozzo, giurista esperta di diritto ambientale e docente di diritto comparato all’università dell’Insubria.
Uno dei fattori decisivi nell’impennata delle cause è stata la firma dell’Accordo di Parigi, che impone obiettivi vincolanti ai firmatari. Da allora il numero di cause climatiche è decollato», precisa Pozzo. Stando all’ultimo rapporto Global Trends in Climate Litigation del Sabin Center for Climate Change Law, dagli anni 80 sono state intentate quasi 2.400 cause climatiche, di cui due terzi dopo la Cop21 di Parigi.
La Corte di Giustizia chiamata a esprimersi
La prossima tappa passerà attraverso la Corte internazionale di giustizia dell’Aia, che quest’anno dovrebbe pronunciarsi per la prima volta sull’obbligo legale dei governi ad agire contro la crisi del clima, su richiesta dall’assemblea delle Nazioni Unite. La risoluzione, promossa da Vanuatu, con cui l’Onu ha sollecitato un parere consultivo del suo principale organo giudiziario, segna un passo decisivo per la climate litigation. La Corte è chiamata infatti a pronunciarsi sugli obblighi degli Stati nel ridurre le emissioni fossili «a beneficio degli Stati e delle generazioni future», ma anche sulle conseguenze giuridiche per chi viola tali obblighi. Si pone così la delicata questione della responsabilità dei produttori di gas serra per i danni causati ad altri Paesi, in particolare ai piccoli Stati insulari, nonché alle popolazioni e agli individui colpiti.
La protesta partita da un gruppo di studenti
L’approvazione dell’assemblea generale è stata innanzitutto una vittoria della società civile e in particolare di un gruppo di studenti dell’università di Port-Vila, la capitale di Vanuatu, che hanno ripreso un analogo progetto di Palau e delle Isole Marshall, fallito nel 2011. Un decennio dopo, il contesto è stato molto più favorevole: la petizione dei giovani è passata a livello statale e poi il governo di Vanuatu l’ha portata al Forum delle Isole del Pacifico nel luglio del 2022, che hanno approvato la richiesta alle Nazioni Unite e alla fine hanno ottenuto il sostegno dell’assemblea generale.
L’obiettivo è soprattutto di influenzare i negoziati sul clima e di sostenere la cooperazione, contribuendo a fornire argomenti legali per gli Stati più vulnerabili. I pareri consultivi della Corte, infatti, non hanno valore giuridico vincolante, ma hanno un’alta autorità morale e contribuiscono allo sviluppo del diritto fornendo elementi interpretativi decisivi per le cause intentate a livello nazionale.
Fonte: Il Sole 24 Ore