La cucina non è figlia delle stelle
Negli ultimi mesi è tornata alla ribalta la querelle:fine dining(meglio locali stellati o anche osti alla ricerca di un posto nella rossa) versustrattoria.Un dibattito, posto male, di contrapposizione, non si tratta di un incontro di calcio, bensì di due mondi con filosofie diverse, posizionamenti differenti, aspettative divergenti. Ciò non toglie che abbiano però un obiettivo comune, quale il successo per continuare ad esercitare l’attività.
Il ritorno all’attenzione sulla polemica, lo ha provocato la restituzione della stella Michelin del ristorante Giglio di Lucca: ponendo un dubbio se convenisse o meno il riconoscimento della guida francese, che assegna e toglie a suo piacimento, senza avere o meno, il consenso del ristoratore, salvo che un locale si astenga dall’inviare il modulo alla guida per venire giudicato.
I tre soci del Giglio (Benedetto Rullo, Lorenzo Stefanini e Stefano Terigi) hanno così giustificato il loro gesto (che vorrei ricordare in Francia ha avuto precedenti di chef molto più famosi): «la nostra scelta può essere travisata, vogliamo recuperare il vero spirito della ristorazione. Facciamo un passo indietro per farne due avanti in futuro. Vogliamo riavvicinarsi alla gente e ritrovare la nostra identità. Puntiamo ad accoglienza, autenticità e soprattutto libertà di espressione».
Questa analisi indica, in modo chiaro, come l’appartenenza alla Michelin ponga una gabbia di comportamenti che, anche un frequentatore seriale di ristoranti, può riscontrare, a cominciare da una perdita di identità di molti cuochi, in larga parte giovani, che seguono stili di cucina altrui, perdendo così «libertà di espressione».
Non solo, per inseguire appunto modelli stellati, ricorrono a materie prime di lusso ed esotiche, mise en place forzate, piatti scopiazzati da chef famosi, che non appartengono alla loro cultura, così come riti per loro inusuali.
Fonte: Il Sole 24 Ore