La cultura affronta l’emergenza climatica

Un momento storico per il settore culturale che, dopo essere stato inserito tra le priorità strategiche nella Dichiarazione di Roma dei Leader del G20 in quanto motore di sviluppo sostenibile e di resilienza, in questi giorni ha giocato un ruolo cruciale alla COP 26, il vertice mondiale delle Nazioni Unite sul clima. Organizzato dal Regno Unito, in partenariato con l’Italia, la 26esima edizione della COP si è tenuta a Glasgow tra il 31 ottobre e il 12 novembre e ha riunito più di 190 rappresentanti di governo, impresi e cittadini con l’obiettivo di aggiornare gli Accordi di Parigi per raggiungere, si spera, l’azzeramento delle emissioni nette a livello globale entro il 2050. “Siamo sulla buona strada per la catastrofe climatica” ha dichiarato il presidente dell’ONU Antonio Guterres all’apertura della Conferenza, avvisando che gli impegni presi appunto nel 2015 per la riduzione dei gas serra non sono più sufficienti e che nei prossimi dieci anni produrremo un aumento della temperatura media di 2,7 gradi e non di 1,5 come era nelle intenzioni dell’Accordo.

Crisi climatica e Arte

Mitigare la crisi climatica è forse la più grande sfida che l’uomo abbia mai affrontato nonché la più urgente; se in queste circostanze la speranza è certamente un obbligo morale, non può più essere l’unica strategia. A ricordarcelo è la grande installazione “NO NEW WORLD” del collettivo inglese Still/Moving, che in questi giorni troneggia al porto di Govan Graving proprio di fronte all’ingresso principale dell’evento e che sembra rispondere all’opera piena di speranza di David Buckland, realizzata per la COP21 a Parigi nel 2015, in cui il testo “Another World is Possible” era stato proiettato su un iceberg in fusione. Un appuntamento fisso ormai quello dell’arte alla COP, che quest’anno è stata raccolta sotto il cappello del Climate Fringe, un festival a cui ha partecipato anche l’artista Olafour Eliasson con due opere: l’installazione luminosa “Grace of the Sun” alimentata da 1.000 lampade solari e il documentario realizzato con l’attivista sudafricano Kumi Naidoo.

Climate Heritage Network

Che l’arte sia un incredibile strumento per convogliare contenuti complessi è noto da sempre, ma nella lotta alla crisi climatica il settore culturale può giocare un ruolo ben più strategico. A confermarlo è stato il fitto calendario di eventi organizzato proprio durante la COP dal Climate Heritage Network, la grande rete tematica fondata nel 2019 per mobilitare le organizzazioni culturali internazionali verso l’azione per il clima e che a Glasgow ha lanciato il suo primo manifesto “Accelerating Climate Action through the Power of Arts, Culture and Heritage”. Firmato da circa 2000 organizzazioni della cultura di tutto il mondo, il Manifesto chiede ai governi di integrare le intuizioni e le competenze dei professionisti della cultura, dagli artisti agli archeologi, nella lotta al cambiamento climatico non solo nell’ambito della comunicazione, ma anche dell’energia, dell’edilizia, della mobilità o dell’agricoltura.

“L’umanità può guadagnare in velocità ed efficienza se la transizione verde è guidata dai valori culturali. Serve infatti un maggiore coordinamento affinché la cultura sia inclusa nelle strategie nazionali e gli operatori del settore siano i primi portavoce di un approccio green in tutte le loro procedure. L’Italia è uno dei pochi paesi ad oggi ad aver inserito il patrimonio culturale all’interno della propria Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici come infrastruttura critica, documento il cui iter di adozione formale purtroppo non è ancora concluso” dice Erminia Sciacchitano, presente alla COP26 per il Ministero della Cultura che l’8 novembre ha co-organizzato insieme al Dipartimento per il Digitale, la Cultura, i Media e lo Sport del Regno Unito l’evento “International Cultural Heritage, Adaptation and Resilience: From Rome to Glasgow”, una collaborazione che si inquadra negli impegni al centro dell’Agenda Multilaterale 2021 e che i due paesi hanno assunto attraverso le presidenze di G7, G20 e COP26. L’obiettivo dell’incontro, aperto dal Ministro Franceschini e dalla sua omologa inglese Nadine Dorries, è stato rilanciare i messaggi della Dichiarazione dei Ministri della Cultura G20, che avevano sottolineato la necessità di approfittare dell’opportunità della COP26 per sollevare l’attenzione sui danni che i cambiamenti climatici stanno avendo sul patrimonio culturale, ma anche sulle soluzioni che la cultura offre all’azione per il clima come strumento chiave per immaginare nuove strategie di adattamento abitativo delle comunità così come dichiarato nel Sendai Framework for Disaster Risk Reduction e negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite (in particolare nell’SDG 11.4).

Quali soluzioni nella cultura?

Se la cultura subisce severamente gli effetti dei disastri legati al cambiamenti climatico, dall’erosione dei monumenti alla distruzione degli ecosistemi delle comunità indigene, offre anche soluzioni inaspettate. Lo European Cultural Heritage Green Paper “Putting Europe’s shared heritage at the heart of the European Green Deal”, redatto da Europa Nostra con ICOMOS e il Climate Heritage Networkm, offre una panoramica sulle potenzialità offerte dal settore e che possono fungere da ponte per una collaborazione tra cultura e scienza. Il documento cita innanzitutto la possibilità di far convergere le metodologie di progettazione partecipata community-based nella pianificazione dell’adattamento ai cambiamenti ecologici. Prosegue con la opportunità offerte dal ripensamento delle destinazioni d’uso del patrimonio culturale come alternativa alla cementificazione e allo sfruttamento del suolo per poi passare alle inesauribili risorse offerte dai siti del patrimonio culturale che diventano un prezioso osservatorio dei processi climatici, utili non solo a stabilire e comprendere le linee di base mutevoli e gli sforzi di adattamento del passato, ma anche per fare nostre soluzioni escogitate dall’umanità prima dell’apparizione dei combustibili fossili, quelle che l’Accordo di Parigi chiama tecnologie endogene, e che di fatto oggi trovano nuova importanza.

Fonte: Il Sole 24 Ore