
la lezione dei terzi portieri nel calcio
Se a questo si aggiunge che veniamo da una storia decennale o ventennale in cui nelle aziende troppo spesso si sono confusi, più o meno consapevolmente, i fattori igienici (che generano la soddisfazione di alcuni bisogni quali sicurezza e compenso, ma non generano motivazione) con i fattori motivanti, (che soddisfano bisogni diversi quali l’aspirazione professionale, il piacere di condividere le sfide, il bisogno di sensemaking, il desiderio di un certo tipo di rapporto con i capi), secondo la definizione che ne ha dato Frederick Herzberg, si capisce ancor di più quanto la sfida della motivazione e della capacità di motivare le persone e/o di creare contesti motivanti, sia di straordinaria attualità e strategicità per tutti i tipi di organizzazioni.
Una storia esemplare
C’è un mondo, quello dello sport e nella fattispecie quello del calcio, che a tal proposito ha una storia esemplare cui ispirarsi: quella dei terzi portieri. Come ci ricorda Simone Pieretti nel suo articolo Il terzo in…comodo “la figura del terzo portiere compare alla fine degli anni ’90: prima di allora è il ruolo che appartiene di diritto al portiere titolare della squadra Primavera. Ma, a poco a poco, gli impegni aumentano, il calendario si arricchisce di impegni, le Coppe Europee cambiano formula inserendo la fase a gironi che contempla maggiori partite in programma”. Da qui la presenza fissa nella rosa della prima squadra del terzo portiere. Stiamo parlando, quando ci riferiamo al caso dei terzi portieri, di persone come Valerio Fiori, due partite in nove stagioni nel Milan a fine secolo scorso e, in bacheca, uno scudetto, una Coppa Italia, una Supercoppa italiana, due Champions League, due Supercoppe UEFA e una Coppa del Mondo per club. Un terzo portiere fortunato, che ha vinto tantissimo anche se ha giocato pochissimo: figuratevi gli altri.
Il terzo portiere è un compagno di squadra come tutti gli altri, se non per due aspetti che caratterizzano la sua vita quotidiana professionale: il primo è la certezza di non giocare mai, salvo una combinazione fortuita di circostanze che dovrebbero rendere indisponibili il primo e il secondo portiere; circostanze rarissime e che nessuno, nemmeno il terzo portiere, augura e si augura per i colleghi. Il secondo aspetto è la richiesta da parte della società e della squadra di farsi trovare ed essere sempre pronto per giocare, qualora ce ne fosse la necessità. Due aspetti tra loro quasi antitetici, due aspetti che si caratterizzano come un trade off tecnicamente: infatti il terzo portiere potrebbe essere portato a pensare, umanamente, “o mi prometti prima o poi di giocare, e allora mi preparo con dedizione; oppure, se ho la certezza che non giocherò mai, con il cavolo che mi alleno come tutti gli altri tutti i santi giorni”.
La motivazione del terzo portiere: la sfida delle sfide
Per queste ragioni pensiamo che la motivazione del terzo portiere sia la sfida delle sfide, una sorta di missione impossibile che, quando funziona, diventa esemplare per le organizzazioni. Perché funzioni, ad ascoltare e a leggere le storie di tanti e diversi terzi portieri, deve accadere una cosa sola: si deve attivare quella dinamica che ci piace chiamare di motivazione circolare (non ce ne vogliano gli economisti) ovvero di perfetta attivazione dialettica tra motivazione estrinseca, generata da fattori esterni e di cui è principalmente responsabile il coach dei portieri nel mondo del calcio (il proprio diretto people manager nelle organizzazioni aziendali); e motivazione intrinseca, ovvero quella motivazione interiore che ciascuno di noi è chiamato ad alimentare e che, secondo qualsiasi teoria o modello, è la forma più forte di motivazione. Questa dinamica particolare si attiva quando si incontrano da una parte un coach “capace di parlare alla persona prima che al collega o al ruolo che ricopre, di esprimere empatia e rispetto, di lavorare sulla connessione tra i tre portieri del team e di valorizzare il contributo di tutti, soprattutto di chi non è front man”, come ci ricorda Gianluca Spinelli, attuale preparatore ed allenatore dei portieri dell’Inter, rientrato in Italia dopo una lunga esperienza internazionale. E, dall’altra, un terzo portiere che si “sente fortunato perché tanti ci hanno provato ma molti non sono arrivati a destinazione, che non si lascia abbattere solo dal fatto di non giocare ed è capace di mettere da parte la propria aspirazione egoistica, che sa spiegare ai suoi figli ormai grandi che è felice anche se non gioca, perché è consapevole del contributo che dà alla squadra”, per citare la testimonianza di Paolo Orlandoni che ha vinto con l’Inter cinque campionati, quattro Supercoppe italiane, tre Coppe Italia, una Champions League e una Coppa del Mondo per club. Totale partite giocate sei, in sette stagioni.
Paolo e Gianluca non si sono mai incontrati all’interno della stessa squadra di calcio e questa è una buona notizia perché entrambi sono stati attivatori di dinamiche di motivazione circolare con altre persone, terzi portieri o coach, che hanno beneficiato e beneficiano ancora del loro quotidiano desiderio di alimentare circoli virtuosi. Le organizzazioni, per la nostra esperienza, sono piene di persone come Paolo e Gianluca: forse hanno solo bisogno di storie esemplari da condividere, di semi di passione da ritrovare e di terzi portieri da emulare.
Fonte: Il Sole 24 Ore