La lezione dell’oro in tutti periodi dell’arte
Raro, incorruttibile, malleabile, duttile: è l’oro, il metallo più prezioso, da sempre oggetto dell’avidità umana, usato sin dall’antichità – per le sue caratteristiche fisiche, tra cui lo splendore – come attributo del potere supremo e in diverse tradizioni religiose assunto come metafora della luce celeste e dell’immortalità. Materia di elezione nel Medio Evo per le suppellettili liturgiche e i ricami sui paramenti sacerdotali, ma anche per realizzare i fondi delle icone, in cui le figure sacre sembrano immerse in uno spazio infinito, emblema di una realtà ultraterrena, l’oro – steso in fogli sottili e lavorato con tecniche diverse – appare in numerosissimi esempi di pittura medievale. Presente di rado nella produzione pittorica rinascimentale – pur permanendo nei manufatti delle arti applicate – l’oro riappare inaspettatamente alla fine del XIX secolo nella produzione delle Secessioni e si fa largo in più occasioni nella sperimentazione artistica dalla metà del Novecento.
Come testimonia la mostra «L’età dell’oro. I capolavori dorati della Galleria Nazionale dell’Umbria incontrano l’Arte Contemporanea», promossa dalla Galleria Nazionale dell’Umbria dal 26 ottobre al 19 gennaio 2025, nata da un’idea del direttore Costantino D’Orazio, che ha istituito una serie di dialoghi tra una selezione dei fondi oro della collezione del museo e le opere di alcuni importanti protagonisti del panorama artistico contemporaneo internazionale, i quali dell’oro si sono serviti con modalità diverse ed esiti di grande interesse. Una mostra fruibile a più livelli, con l’aiuto di una agile guida cartacea e di un catalogo scientifico che si avvale di contributi sia di storici dell’arte sia di studiosi che del prezioso metallo hanno approfondito diversi aspetti, come il significato spirituale, le aree geografiche in cui era estratto, la sua presenza nelle arti di Bisanzio, nel mito e nella letteratura.
Il percorso espositivo
Costruito dalle curatrici Alessandra Mammì, critica d’arte contemporanea, Carla Scagliosi, storica dell’arte moderna, Veruska Picchiarelli, studiosa di arte medievale, accostando le opere in mostra (ben cinquanta) per assonanze estetiche e tecniche e attivando suggestioni e inediti spunti interpretativi, si apre con l’«Autoritratto oro» (1960) di Michelangelo Pistoletto e prosegue con lo splendido piviale ricamato con fili d’oro del Cardinale Armellini (inizio sec. XVI) accostato ai tre grandi Scarabei stercorari in bronzo e oro di Jan Fabre (2016), sormontati da simboli cristiani, mentre la «Madonna col Bambino e sei angeli» di Duccio di Boninsegna è affiancato al «Concetto spaziale su fondo oro» (1964) di Lucio Fontana, la «Golden Marilyn 11.40» di Andy Warhol guarda l’«Angelo della Pala dei cacciatori» di Bartolomeo Caporali (1487) e la delicata «Maddalena» (1977) di Fausto Melotti richiama la santa dipinta da Taddeo di Bartolo (1403).
In mostra figurano altri “dialoghi”, tra cui quelli tra le opere di Marisa Merz, Burri, Zorio, Vezzoli, Penone, Klein, Paolini e preziosi dipinti del passato, ma anche singole opere come l’iconico «Senza titolo» (1992) di De Dominicis e la «Goldfinger/Miss» (1965) di Ceroli, in cui il palese riferimento alla «Venere» di Botticelli è tradotto nella serie di sagome di legno grezzo dorato, che richiamano la Honor Blackman del film dell’agente 007 James Bond.
Se a chiudere il percorso espositivo sono «Le tre età» di Gustav Klimt (1905) e «Senza titolo» (2021) di Mimmo Paladino accostati al «Gonfalone di Sant’Agostino» (1499 c.) di Pinturicchio, per la presenza ripetuta di elementi decorativi dorati, va d’altro canto segnalato l’alto quoziente emozionale del dialogo tra il «Cristo crocifisso tra i santi Francesco e Bernardino da Siena» di Niccolò di Liberatore (1497) e le due versioni (1975, 2007) della «Tragedia civile» di Jannis Kounellis: nella prima su una parete coperta da foglia d’oro si stagliano un appendiabiti con un cappotto e un cappello, nella seconda il fondo dell’opera è costituito da frammenti irregolari di legno grezzo dorato fissati su rete metallica e da cappotti sospesi a una pertica come stracci, a simboleggiare la desolante assenza dell’uomo.
Fonte: Il Sole 24 Ore