La lingua viva della poesia occupa i monumenti della Capitale
Un percorso di disseminazione della cultura non solo nell’ambito dei grandi centri urbani, ma soprattutto nelle periferie storiche della capitale, è stato cominciato dalla Soprintendenza Speciale di Roma. Il fine è riuscire a innescare processi conoscitivi meno impostati e più inclusivi. Dallo scorso 7 ottobre sino al 22 dicembre, la letteratura sarà al centro de “La Poesia, lingua viva – Patrimonio immateriale e di comunità”, con letture d’autore, concerti e performance artistiche. Ideato dalla soprintendente Daniela Porro, il festival ha come epicentro il Drugstore Museum e il Circuito Portuense, il cui direttore, Alessio De Cristofaro, ha curato i contenuti della rassegna che si espanderà sino alla piramide di Gaio Cestio, all’area archeologica di Santa Croce in Gerusalemme, alla villa di Livia, al mausoleo di Sant’Elena, al tempio di Minerva Medica, all’arco di Malborghetto. Non a caso, il titolo “La Poesia, lingua viva” è stato mutuato dal saggio di Arturo Martini “La scultura, lingua morta” (Abscondita, 2022): un ribaltamento trasversale di senso come strumento di conoscenza, legante sociale e culturale che superi i confini generazionali.
Tra i numerosi appuntamenti programmati, il “Questionario Poetico”, coordinato da Paola Caramadre, Sandra Giuliani, Gisella Blanco e Jonathan Giustini, sarà l’occasione per incontrare alcuni dei protagonisti della scena letteraria romana, così la vincitrice del Premio Strega Poesia Vivian Lamarque in dialogo con Maurizio Cucchi, Plinio Perilli, Maria Grazia Calandrone, Marco Palladini, Rosaria Lo Russo, Marco Giovenale, Gabriella Sica, Damiano Abeni, Moira Egan, Edith Bruck, Renato Minore, Silvano Agosti, Claudio Damiani, Alessandro Ceni, Annelisa Alleva, Elio Pecora e svariati altri.
Ogni cosa è in prestito
Lo scrittore e giornalista Renato Minore ha ripercorso la sua intera carriera poetica, contenuta nell’auto-antologia “Ogni cosa è in prestito” (La nave di Teseo, 2021) e accompagnata da un’illuminante postfazione di Simone Gambacorta. Da subito, Minore manifesta una visione piena nel frammento della realtà; i singoli testi non appaiono mai situazionali, bensì attente micro-indagini poste in relazione intertestuale, così da ricreare un contesto solido, cadenzato dal ritmo non solo del verso, ma anche delle pause tra i componimenti. Giulio Ferroni, che ha firmato la prefazione al volume, sottolinea che questa tecnica, più psicologica che letteraria, è utile all’autore a sconfessare con decisione il sapere prodotto dall’esperienza, e destrutturato proprio dall’esperienza stessa: “(…) quasi il romanzo / o il saggio analitico della mia vita”. I versi si dislocano emotivamente, vagamente nostalgici quasi a ripercorrere un’eco caproniana comunque ancorata alla storia, alla memoria collettiva che si fa lineamento personale, al dialogo-analisi con gli altri poeti e con la loro cittadella idealizzata, alla riflessione sul polimorfismo dell’io di stampo pessoano che investe tutto, persino i sentimenti e gli affetti privati. D’altronde, è nel leopardiano fingersi del pensiero che il pensiero, fingendosi, crea (o viene creato) il linguaggio. E citando Wittgenstein: “Ciò che può essere mostrato, non può essere detto”.
L’io minimo
Contraddizioni, contrasti, palinodie, ossimori e lievi anafore non sempre compiute si alternano tra le pagine, caratterizzando i versi piani e scorrevoli di Minore, che sanciscono le tappe di un percorso autoriale radicato nel proprio vissuto, benché aperto a una coralità fondamentale, con uno stile talvolta dialogico. Prepara l’attesa necessaria alla formulazione di un racconto, ma con scorci apparentemente occasionali. Attraverso i molteplici microcosmi soggettivi, il fascino della quotidianità sviluppa la grandezza di una visione complessiva, sebbene mai unitaria. Sembra che si parli del mondo, ma alla fine di ogni testo si ha la sensazione di ritrovarsi a tu per tu con il proprio io, più solitario di come si potesse immaginare: “(entrambi amiamo il minimo in primo piano: / ma ingrandire vuoi dire conoscere, non riconoscere)”, precisa tra parentesi “per Ennio Flaiano”, sul quale con Francesca Pansa ha scritto anche “Ennio l’alieno: i giorni di Flaiano” (Mondadori, 2022). L’io “minimo” è una presenza cangiante, che si dà all’altro per poi annullarsi, che gioca a nascondino tra le similitudini, e ritratta di sé quando sembra stagliarsi, ma sta nella facoltà di ritrattarsi la sua caratteristica più estrema e vitale, tra la beffa e la tristezza: “E su quel fondo / metti che avanza”.
Fonte: Il Sole 24 Ore