La meraviglia senza tempo di Ebla
C’è un gatto in copertina ed è un libro di archeologia e meraviglia. Siria, Ebla, cortile della casa della Missione italiana: Paolo Matthiae è al tavolo di lavoro, gli occhi sulle carte, la pipa in una mano, l’altra appena appoggiata su Filippo, il gatto che lo osserva e che, per anni, ha fatto parte di una squadra incredibile per la storia dell’archeologia. Paolo Matthiae ha avuto la prima intuizione e ha guidato studiosi e operai che dal 1964 in poi hanno fatto della «scoperta di Ebla un successo epocale, che permetteva di collocare l’importante centro urbano protosiriano della seconda metà del III millennio a.C. in contatto con la Mesopotamia settentrionale e meridionale e il medio corso dell’Eufrate della fine dell’età protodinastica e con l’Egitto dell’Antico Regno dalla IV alla VI dinastia della valle del Nilo». E Filippo – battezzato così dalla moglie Gabriella, ricordando l’imperatore Filippo l’Arabo – è stato testimone di scoperte, delusioni, giorni assolati, scioperi degli operai, cuochi improponibili, diplomazia culturale che Paolo Matthiae raccoglie in Senza veli. Ricordi dell’archeologo che scoprì Ebla. Più che un libro, lo sottolinea lo stesso autore, «frammenti di ricordi, come si addice a un archeologo». E la natura frammentaria esalta la vividezza del racconto. Si respira la gioia di certi ritrovamenti, la fatica, i dubbi e i tentativi sul campo.
Appassionato di egittologia, segue i corsi delle discipline sul Vicino Oriente antico e si laurea alla Sapienza di Roma con Sabatino Moscati. A inizio anni 60, Matthiae vive le prime esperienze di scavo nel Vicino Oriente e ricorda l’arrivo in Siria in un caracollante taxi: «Nella notte avanzata, stanco e felice di trovarmi finalmente in terra siriana sotto un cielo splendente di stelle, varcato l’allora desolato posto di frontiera di Bab el-Hawa, la Porta del Vento, nell’improvvisa frescura delle notti del clima predesertico osservavo tra le ombre fuggevoli distese sempre più fitte di ulivi e pistacchi: gli schiocchi non rari che provenivano da alcuni alberi seppi solo più tardi erano i pistacchi maturi che si aprivano nell’oscurità» e davanti Aleppo. Durante quel soggiorno, in un magazzino ricavato in una madrasah, dove erano raccolti i reperti del Museo archeologico, Matthiae, 22enne, nota un bacino rettangolare a due vasche quadrate giustapposte e ne riconosce l’unicità, prova a capirne la provenienza: un grande tell, nome arabo per le colline artificiali che coprono antichi insediamenti, una cinquantina di chilometri a sud di Aleppo.
Quel tell è al villaggio di Mardikh e due contadini, Mohammed Hardan e Ali Khodr, gli indicano con incredibile sicurezza un settore limitato dove sarebbe stato trovato durante lavori agricoli il bacino basaltico di Aleppo.
La grandezza di Matthiae, e del racconto, quasi una spy-story, è in quell’intuizione: Matthiae dice a Moscati di chiedere la concessione per Tell Mardikh. La prima campagna inizia nel settembre 1964 con l’apertura di tre cantieri. L’identificazione dei Templi di Ishtar e di Rashap conferma la prima intuizione: quell’insediamento doveva essere stato un centro urbano di particolare rilevanza storica nel periodo paleosiriano, la prima metà del II millennio a.C. L’adrenalina della quotidianità si scontra con le fatiche fisiche e le difficoltà comunicative. Ma la cavalcata continua: è del settembre 1968 il primo ritrovamento epigrafico di grande importanza nella storia della Missione: un torso acefalo in basalto, chiaramente di un sovrano, con un’iscrizione cuneiforme di cui il collega belga André Finet sentenzia: «Il nome di Ebla è sicuro in un contesto del tutto insolito. È una statua votiva degli inizi del II millennio a.C. con tratti paleoassiri. È menzionata la dea Ishtar». Ebla, proprio Ebla!
Gli scavi proseguono, come pure i ricordi di Matthiae, quasi un cronista della grande bellezza: nel 1975, la scoperta che cambia la storia. Il Grande Archivio L.2769 è l’Archivio Reale, contenente migliaia di testi cuneiformi, risalenti al terzo quarto del III millennio a.C. Le tavolette erano state originariamente sistemate in larga maggioranza su due scaffalature lignee a tre ripiani poggiate in posizione verticale contro due delle pareti perimetrali. Erano poi scivolate verso il centro del vano quando le scaffalature bruciarono e collassarono investite dalle fiamme che distrussero il palazzo. Ci vollero otto giorni per portare via il materiale, consegnato in 99 casse al Museo di Aleppo.
Fonte: Il Sole 24 Ore