La Perla, accordo temporaneo al Mimit tra liquidatori inglesi e commissari italiani per la ripartenza di produzione e vendita

Il rischio che saltasse il tavolo c’era, ma dopo due giorni è uscita la nota del Mimit che liquidatori britannici di La Perla Global Management UK e curatori e commissari delle controllate italiane hanno trovato un primo accordo temporaneo per riprendere produzione e vendita di lingerie di alto di gamma “Made in Bologna” (l’azienda produttiva di via Mattei è in amministrazione straordinaria) usando lo storico marchio che oggi è in mani inglesi e vendendole attraverso la società commerciale italiana (in liquidazione giudiziale). La formula utilizzata ufficialmente è che è stato raggiunta un’intesa «interinale per consentire a La Perla Manufacturing la produzione di capi a marchio “La Perla” e la loro commercializzazione».

Due giorni di trattative per un compromesso “interinale”

Il comunicato pubblicato da Palazzo Piacentini, dopo «una due giorni di sessione di lavoro a oltranza del tavolo La Perla», è stringato, i sindacati aspettano di confrontarsi con i commissari di La Perla Manufacturing prima di pronunciarsi. La speranza era e resta che la procedura concorsuale attivata fin qui dal Tribunale di Bologna solo per la Manufacturing (l’unica con più di 200 dipendenti, requisito per l’amministrazione straordinaria) sia estesa anche alla società di merchandising e a quella di gestione, quindi alla controllante britannica, per riunire tutti i “pezzi” di La Perla nelle mani dei commissari italiani e agevolare l’interesse di potenziali acquirenti. Su questo la nota non dice nulla, solo che «alle riunioni hanno partecipato i dirigenti del ministero, una rappresentanza dei liquidatori britannici e i curatori italiani di La Perla Global Management, i commissari di La Perla Manufacturing e il curatore di La Perla Italia. Tutte le procedure hanno lavorato per perfezionare un protocollo di intesa – il primo in assoluto dopo la Brexit – finalizzato alla migliore valorizzazione del Gruppo e a un efficace coordinamento delle procedure». Il lavoro per unificare le procedure è dunque solo all’inizio. Sempre la nota del Mimit conclude che «le procedure si sono impegnate a continuare il confronto per risolvere le questioni ancora aperte, prevedendo di concludere il tutto quanto prima».

La fabbrica di via Mattei intanto riapre con 25 lavoratrici

La vicenda del fallimento transfrontaliero, il primo rilevante caso post Brexit e con un nuovo Codice della crisi in vigore in Italia, è destinato a diventare un caso emblematico e a fare storia anche nella giurisprudenza europea, non solo nell’alta moda per le scenografiche proteste a suon di mutande e reggiseni giganti fatte delle lavoratrici tra Bologna, Roma e Bruxelles. La convinzione che l’unica via per salvare i posti di lavoro sia l’unificazione delle procedure italiane e quella inglese è stata rafforzata tre giorni fa dall’incontro svoltosi nella sede della Regione Emilia-Romagna con giuristi, politici, accademici e sindacati, che hanno analizzato in punta di diritto l’iter giudiziale e fatto il punto sulle chance di ripartenza del gruppo La Perla, a un anno dall’esplosione della crisi. Da questa settimana sono rientrate nella fabbrica di corsetteria di via Mattei 25 delle circa 250 lavoratrici del gruppo in Italia, in vista di una ripresa graduale della produzione sotto la guida di tre commissari governativi arrivati lo scorso maggio. Ma senza alcuna garanzia di poter appiccicare il marchio La Perla e di poter vendere, perché il brand – come tutti gli asset – dal 2017 è di proprietà della holding britannica La Perla Global Management UK (a sua volta controllata a matrioska da fondi olandesi che fanno capo a Lars Windhorst), posta in liquidazione nel novembre 2023 dalla Corte britannica. «La riapertura della produzione avrà un ruolo centrale rispetto alla partita della vendita della società – assicura Stefania Pisani, segretaria generale della Filctem Cgil Bologna, ricordando che la ripartenza è stata possibile per l’intervento di Tyche Bank, banca specializzata in procedure concorsuali e finanza d’impresa che ha fornito la liquidità necessaria a La Perla per ripartire –. Va considerato che sono arrivate dieci offerte di acquisto per la Manufacturing, ma un imprenditore serio rileva tutti i pezzi della società e il marchio, perché solo così il gruppo ha un reale valore sul mercato e si salvaguardano i posti di lavoro».

Lo spezzatino indigesto del marchio La Perla

La holding britannica ha spezzettato in tre Srl la vecchia La Perla, tre società italiane giuridicamente indipendenti, ma di fatto tre business unit o funzioni di un’unica azienda: la produzione di via Mattei a Bologna, La Perla Manufacturing, che si sta giocando la carta dell’amministrazione straordinaria da maggio; la parte commerciale, ossia i negozi, in pancia a La Perla Italia (che non vende nulla se non si produce in via Mattei); e la parte amministrativa italiana che risponde a La Perla Management, che a sua volta lavora se ci sono processi produttivi e lavoratori da gestire. Il Tribunale di Bologna ha dichiarato lo scorso febbraio lo stato di insolvenza non solo per queste due ultime società italiane ma anche per la holding oltremanica già nelle mani dei liquidatori inglesi, congelando tra l’altro il marchio. Caso inedito e coraggioso di intervento su asset fuori dalla giurisdizione italiana.

I conti non tornano: margini operativi buoni e bilanci in perdita

«La Perla non ha mai registrato in questi ultimi anni una crisi economica, solo una crisi di liquidità dovuta all’approccio speculativo del fondo Tennor, non c’è nulla da ristrutturare», dice forte e chiaro Fabio Onofri, commercialista e revisore legale, intervenuto al convegno in Regione, portando i dati degli ultimi bilanci depositati dalle società italiane (riferiti al 2022): «Come si legge dai bilanci di La Perla Manufacturing e di La Perla Italia è evidente che i ricavi coprono abbondantemente i costi, i conti economici vengono chiusi in perdita per motivi contabili, con svalutazioni delle rimanenze scollate dalla realtà e costi di servizi e interessi lievitati per scelte dei fondi di Windhorst, per operazioni che nulla hanno a che vedere con la gestione caratteristica della produzione di corsetteria».

Fonte: Il Sole 24 Ore