La poesia dei maestri per ritrovare una parola autentica

La poesia dei maestri per ritrovare una parola autentica

Riconoscere se stessi e il tempo attraversato con la lucidità e la distanza necessarie per ascoltare da fuori la propria voce, che “brilla nel fermo delle ore”. Con parole remote (Vallecchi, 2024, pp. 152, euro 16) è il titolo con cui Giancarlo Pontiggia è tornato sui suoi passi, come fece e rifece Giovanni Raboni in A tanto caro sangue, confermando un debito inesauribile con la materia poetica. Lo stesso debito che Milo De Angelis darà alle stampe il prossimo 4 febbraio con le Poesie dell’inizio 1967-1973 per Lo Specchio Mondadori. È stata la redazione di una storia della letteratura latina a instaurare un rapporto creativo con i classici: in margine a sequenze in traduzione Pontiggia annotava frammenti più o meno compiuti che solo nel ’98 sono confluiti in un volume organico. Le pagine in latino fungevano da cardine per il suo pensiero poetante, o meglio, da cerniera tra il lascito dei greci e lo slancio dei neo-romanzi, così Catullo per Caproni o Virgilio per Ungaretti.

Un esercizio marginale di civiltà

“Preferirei scrivere in tutta coscienza e totale lucidità una cosa debole, che produrre in trance e fuori di me un capolavoro tra i più belli”, sosteneva Valery nei suoi Cahiers riguardo consapevolezza e disciplina che attribuiva al processo della scrittura, qualità spesso associate al ritiro monastico e all’esercizio caro a Pontiggia per riscrivere un passato indispensabile, ma senza pretese sacerdotali. Dunque il poeta al pari di un amanuense che soppesa e rielabora i bordi lucenti della civiltà, “i frutti d’oro”, trasmettendo ai posteri i fondamenti di un’identità, di una forma collettiva: “Enigmi quieti di una polvere / che non acceca: ombre, ore, orni / di un bosco più remoto…” Se le parole “remote” di Pontiggia sono state riforgiate alla luce della realtà, guardando al mondo, con lui ha condiviso il medesimo approccio meditativo anche Umberto Piersanti, quasi i versi debbano sbocciare nascosti nel folto boschivo dell’individuo, nel segreto silente della sua interiorità. Il poeta deve tutelarli da una dimensione ideologica troppo chiassosa, dalla tormenta del presente che divora le singole esperienze e le fattezze conquistate: “Quando è atroce / l’urlo della mente / l’assurdo meccanismo / dei neutroni / accascia te / sulle sedie, ti sbatte / nei corridoi, sui letti”.

Tuttavia L’urlo della mente (Samuele, 2024, pp. 140, euro 15) si pone in contro tempo rispetto al resto della produzione lirica di Piersanti: un unicum in cui rievoca un vissuto personale profondamente doloroso e risponde alle turbolenze del quotidiano amplificando quell’idea di tragico che Pontiggia stempera a priori, agli antipodi dal suo libro-giardino che rifugge la condizione umana condannata all’oblio secondo la concezione filosofica di Assunto.

L’oppressione dell’assurdo

Piersanti, piuttosto, si trova a smaltire un cumulo di rovi e di spine, e rivive con uno stile più aspro il ricovero in clinica, la privazione della libertà individuale e il senso opprimente della follia. L’io esistenzialista si strugge e si frantuma di fronte alle sbarre gelide di Sartre e ai muri asettici di Camus: “L’assurdo era nel ritorno / e nelle cose, nei volti”. Il poeta urbinate rende ruvidamente la sofferenza psichica nonché la barbarie dell’alienazione mentale, restituendo una testimonianza intima e universale insieme. Il contemporaneo è subito come un’epoca di fratture e di perdita valoriale, una distanza “siderale” dal “tempo differente”, ossia più autentico e radicato nella spontaneità della natura: “Era la vita irrimediabilmente altra / di una semplicità perfetta / ora solamente riconosciuta / e spaventosamente persa”. Dunque la poesia resta in tensione tra ieri e oggi: l’esclusione forzata dalla normalità si acutizza in una critica implicita alla società, esacerbata da un linguaggio crudo e viscerale. “La libertà è quella atroce / della violenza e della paura / io accuso gli altri / d’avermi gettato nella follia: Piersanti fa a pezzi la sintassi rispecchiando il proprio smarrimento, ma senza mai perdere coerenza logica; al contempo, adopera immagini concrete, quasi tangibili, che rimandano a luoghi (cliniche, colline, stanze) e oggetti (fiori, farmaci, pareti) a cui aggrapparsi simbolicamente. E non soccombere in balia di una soggettività falsata.

Fonte: Il Sole 24 Ore