La sacralità del corpo nell’arte di Pasolini

La sacralità del corpo nell’arte di Pasolini

Questa mostra ripercorre i rapporti tra la poetica di Pier Paolo Pasolini e le sue ispirazioni figurative, il suo immaginario visivo. Ad affascinare Pasolini non sono solo le opere dei grandi artisti del passato: Giotto, Masaccio, Piero, Rosso, Pontormo. Ad attrarlo è anche – forse persino di più – la loro rappresentazione. Immagini di immagini, che diventano strumento e insieme fine di un discorso critico ulteriore, di una percezione orientata, di una messa a fuoco selettiva che è lavoro di scelta e attenzione, di vero e proprio montaggio, nel senso cinematografico del termine.

Perché in quelle sequenze visive c’era già un’idea di cinema, solo che all’inizio Pasolini non lo sapeva ancora; l’avrebbe scoperto più tardi.Accanto alle immagini vi sono anche le parole. Nel percorso di mostra a fare da contrappunto alle immagini ci sono i libri che Pasolini possedeva o aveva letto; in una sorta di dialogo o di montaggio virtuale. Per lui, il millenario patrimonio visivo della nostra tradizione figurativa era una specie di linguaggio, ancorché sui generis: linguaggio vivo della realtà, non lingua morta, non ossario cui attingere citazioni colte, ma risorsa formale, strumento di contaminazione stilistica che mobilita la memoria dell’immaginario, sovrappone temporalità incompatibili, provoca l’occhio a vedere diversamente e a riflettere sul vedere stesso, sulla sua storia.

La pittura antica archetipo del cinema

La pittura antica diviene qui archetipo del cinema, e il cinema permette la sopravvivenza della pittura antica. I piani si moltiplicano ma nella distanza, la ripresa dal vivo della realtà non si perde, anzi si conserva.

Il corpo epifanico

Pasolini guarda all’arte dei grandi maestri, per ritrovare le forme dei suoi temi, come quello del corpo, motivo centrale e drammaticamente urgente della sua poetica. Di fronte alla crisi culturale della modernità, il corpo è ciò che appartiene al «passato popolare e umanistico» – come egli stesso scrive – quando la sua realtà fisica «era protagonista, in quanto del tutto appartenente ancora all’uomo», non ancora alienata dal conformismo, e dunque luogo di provocatoria resistenza, di elaborazione del linguaggio immediato della fisicità. Come lo era stato del resto, sia pure per ragioni diverse, per gli artisti del passato, in particolare i cosiddetti Manieristi, seguaci o eredi di Michelangelo, che sul suo esempio ne avevano fatto un mezzo espressivo potentissimo, uno strumento di «rivelazione», come amava dire il poeta di Casarsa.

Il corpo dello scandalo

«Non c’è santità senza la contraddizione e lo scandalo» scriveva Pasolini. Per lui l’immagine più contraddittoria e scandalosa è quella della croce, secondo le parole di Paolo di Tarso la cui predicazione non poco scandalosa da sempre affascinava l’artista. E la figura della crocifissione riveste un ruolo cospicuo, ricorrente, persino ossessivo, nell’immaginario poetico e visivo pasoliniano. Non solo in film, come “La Ricotta”, il “Vangelo” o “Il Decameron” la cui tematica narrativa ne giustifichi iconograficamente la presenza, ma anche in contesti assai diversi, remoti o esotici, dal mito alla fiaba, da “Medea” al “Fiore delle mille e una notte”. Così, il simbolismo della croce assume un respiro universale: religioso, mitico, antropologico, rituale, fino a diventare quasi un’icona totemica la cui perturbante potenza visivo/evocativa travalica i limiti dei generi artistici, dei contesti culturali, persino delle differenze sessuali, se nei versi giovanili de “La Passione” il poeta aveva potuto attribuire a Cristo un «corpo di giovinetta».

Fonte: Il Sole 24 Ore