L’abbandono della campagna: in 20 anni persi 850mila ettari
«Il lupo è un animale protetto, lo so. Ma la scorsa estate, all’alpeggio, per colpa dei lupi ho perso il 35% dei miei animali». Giorgio Tagliacozzo alleva vacche e cavalli da carne sui monti Simbruini, a un passo dal Parco nazionale d’Abruzzo. Lo fa da una vita, ma ora ha perso la fiducia: «Ogni giorno penso di mollare – racconta – se non lo faccio, è solo perché gli animali mi servono a mantenere puliti i terreni di mia proprietà: se prendessero fuoco le sterpaglie, sì che sarebbe un disastro». Dall’allevamento, Tagliacozzo non ci ricava nemmeno più uno stipendio dignitoso: «A fine anno – dice – la perdita è accettabile solo grazie ai fondi europei per l’agricoltura». Il figlio, a lavorare in azienda, non ci pensa proprio. E vendere è davvero un miraggio: «E chi se la compra, la tenuta?».
In questi giorni di festa, sulle vette le piste da sci scintillano. Ma l’altra faccia della montagna ha un colore cupo. Quello delle aziende agricole che non ce la fanno più a proseguire l’attività, per via dei costi troppo alti e della mancanza di infrastrutture. Così, ad una ad una, chiudono i battenti. La Cia-Agricoltori italiani parla di vera e propria emergenza: negli ultimi venti anni, degli 1,3 milioni di imprenditori agricoli che hanno cessato l’attività in Italia, 936mila si trovavano in collina o in montagna. Tre su quattro. Così, nelle cosiddette aree interne del Paese, sono andati perduti 850mila ettari di campagna coltivabile.
Ancorché neglette, le aree interne non sono affatto secondarie. Occupano il 60% del suolo italiano, ospitano il 48% dei comuni e 13,6 milioni di persone le chiamano casa. Ma il processo di abbandono è inarrestabile: negli ultimi dieci anni il tasso di spopolamento delle montagne e delle colline italiane è cresciuto a una velocità doppia rispetto alla media nazionale e verso i centri urbani si sono spostati qualcosa come 330mila giovani laureati tra i 25 e i 29 anni, in fuga per mancanza di servizi e di opportunità. «Serve una cabina di regia nazionale per le aree interne», sostiene Cristiano Fini, presidente della Cia. Una specie di commissario straordinario delle aree interne, insomma.
«Servono politiche abitative – spiega Fini – con incentivi per comprare o per ristrutturare le case. Occorrono infrastrutture per la mobilità e la digitalizzazione, scuole, asili, servizi sanitari. Sarebbe importante anche istituire sgravi contributivi per chi vuole aprire un negozio o un’attività». Mesi fa il sottosegretario all’Agricoltura, Luigi D’Eramo, in collaborazione con Unioncamere aveva annunciato un piano per lo sviluppo delle aree interne del Paese, ma al momento siamo solo fermi a un paio di progetti pilota.
A Fossoli di Corte Grugnatella, sull’Appennino piacentino, la famiglia di Silvia Lupi conduce il terreno che sessant’anni fa dava da mangiare a quaranta famiglie. Oggi è rimasta solo lei, ad allevare bovini e maiali: «Gli inventivi europei ci sono – dice – ma la Pac è fatta per aiutare le grandi aziende. Le normative Ue sull’allevamento poi si sono inasprite, dal benessere animale alla biosicurezza, fino al trattamento dei reflui. Così, se hai pochi animali, investire non conviene perché non si riescono ad ammortizzare i costi». A Fossoli i giovani come Silvia, che ha 39 anni, se ne sono andati via e le case ormai vengono aperte solo d’estate, per le vacanze in Val Trebbia.
Fonte: Il Sole 24 Ore