L’abitudine ci rende ciechi? Scopriamo il potere della disabituazione con Sharot e Sustain
La prima: leggendolo, mi sono trovato spesso a pensare “beh, ovvio. Certo, chiarissimo. Eccome, questa cosa la so bene, accade spesso anche a me. Ok, ovvio che funzioni così”. Questa serie di micro reazioni per un momento (non quantificabile) hanno rischiato di ingannarmi, e mi stavano facendo considerare il testo ben scritto e scorrevolissimo, ma in fondo “niente di nuovo”. Ad un certo punto, e chissà se è voluto dagli autori, la scintilla: mi sono reso conto che ero vittima di una abituazione al concetto di abituazione. Mi serviva cioè dis-abituare il mio cervello a considerare i singoli contenuti (mis-informazione, varietà, creatività) solo verticalmente (cosa c’è di uguale tra questa cosa che sto leggendo e quello che già so) per cercare cosa c’era di diverso tra quanto già sapevo e quanto stavo leggendo. E l’ho trovato proprio nel filo conduttore, nella connessione che gli autori stavano raccontando tra l’abituazione e i contenuti stessi: cosa hanno in comune i social media, la resilienza, l’abitudine a mentire? La caratteristica del nostro cervello ad essere predisposto all’abituazione, appunto.
Seconda cosa. Non è che i singoli argomenti fossero anche per me ugualmente conosciuti, almeno nella chiave di lettura proposta dal libro. Senza svelare troppo, ne sottolineo due: creatività e resilienza. Mi occupo di creatività per mestiere e per passione e non è certo nuova la zona di pensiero legata al concetto che cambiare le proprie abitudini favorisca la creatività. Ma esperimenti e studi che aggiungano tasselli significativi all’idea che le persone con una abituazione lenta (o dis-abituazione veloce) siano anche più creative, danno una prospettiva ulteriore e nuovi spunti di utilizzo al concetto.
E la resilienza? Parola molto di moda, sono tra quelli contenti che lo sia perché è una caratteristica personale molto utile; al tempo stesso proprio per il suo recente sovrautilizzo è una parola a rischio retorica e banalizzazione. E allora, ben vengano Sharot e Sustain a chiederci quanto tempo ci vuole per riprendersi da un cattivo voto, da un divorzio, da una pandemia, e se l’incapacità (anche fisiologica) di abituarsi rapidamente a certe situazioni renda le persone meno resilienti e più facilmente attanagliate da paure e senso di impotenza.
Infine, quello da cui il libro parte, ambiziosamente: la felicità. La rendo io semplicistica (gli autori no): l’abituazione fa diminuire la felicità. Se mi abituo alle cose belle, sono felice ma me ne rendo sempre meno conto, per la definizione stessa (reagiamo sempre meno a stimoli costanti). Oppure non mi accorgo (più) di cose che mi rendono infelice, togliendomi spinta a modificare cosa mi rende tale.
E questo lascia poi spazio lungo il testo a ragionamenti più ampi di tipo culturale e sociale, su ingiustizie, discriminazioni, tirannie, tematiche ambientali. Aprendo spunti di riflessione e di possibili direzioni da intraprendere, anche individualmente, verso un nuovo “futuro della disabituazione”. Sebbene, come citano gli autori, sia “difficile fare previsioni. Soprattutto sul futuro”.
Fonte: Il Sole 24 Ore