L’Agro Pontino: infernale provincia del Punjab

L’Agro Pontino: infernale provincia del Punjab

Il tempio di Velletri con cui si apre Agro Punjab di Stefania Prandi e Francesca Cicculli non è un antico edificio di culto dei volsci o dei romani, bensì un gurdwara, ovvero la “casa del Guru”: il luogo sacro del sikhismo. Da qui parte l’illuminante e appassionante reportage sullo sfruttamento dei sikh nelle campagne di Latina (così il sottotitolo). Un’inchiesta svolta tra Agro Pontino e India, durata oltre un anno. Già pubblicata in parte su giornali italiani e stranieri quando, nel giugno scorso, ha riempito i notiziari la vicenda, presto dimenticata, di Satnam Singh, il bracciante sikh lasciato morire dissanguato dal padrone dell’azienda per cui lavorava: Antonello Lovato. Anziché chiamare l’ambulanza lo aveva scaricato davanti a casa, depositandovi anche il braccio che una macchina agricola gli aveva strappato.

Sulle terre che furono bonificate prima dai latini e poi da Mussolini, che impiegò famiglie del Nord Italia in cambio di un appezzamento, terre in cui a partire dagli anni 80 si sono insediati clan camorristici, mafiosi e della ’ndrangheta, e che sono anche il feudo in cui è stata eletta Giorgia Meloni, da una ventina d’anni sono al lavoro migliaia di braccianti stranieri, provenienti principalmente dallo Stato indiano del Punjab, di religione sikh. Per 4-6 euro all’ora, a spregio della legge e di un salario degno di un Paese civile, con contratti irregolari o inesistenti e sottoposti a continue violenze, dall’alba fino a sera, raccolgono a mani nude e senza protezioni frutta – kiwi in particolare, di cui l’Italia è divenuto il terzo produttore mondiale – e verdura, si occupano delle piante e delle serre. Nelle poche ore di riposo domenicale vanno al tempio, uno «stanzone dalle pareti rosa, con il pavimento ricoperto di tappeti». Qui le due giornaliste, pluripremiate per inchieste precedenti, hanno iniziato a raccogliere le confidenze dei membri di questa comunità che predica l’onestà, l’impegno sul lavoro e nei rapporti umani e la condivisione di quanto si ha.

Sono arrivati in Italia – raccontano – indebitandosi per versare dai 10 ai 24mila euro ai trafficanti che li fanno entrare, o “regolarmente” – chiamati da un’impresa come previsto dalla legge Bossi-Fini – o irregolarmente, attraverso le pericolosissime donkey routes. «Migration industry»: così Aspire, uno studio dell’Università Statale di Milano, definisce il sistema di intermediazione tra i lavoratori e i datori di lavoro che sfrutta il decreto flussi. Il requisito del contratto previsto dalla norma costringe infatti i sikh a pagare gli intermediari per contratti spesso fittizi (e a ricomprare altri contratti se sono irregolari alla scadenza del permesso). È infatti quasi impossibile conoscere già in India dei datori di lavoro italiani.

«Tutti quelli che si trasferiscono all’estero partono con mille sogni su come migliorare la propria vita e quella dei loro cari (…). Avevo immaginato di lavorare sodo e di aiutare i miei figli. Ma quando sono arrivato in Italia, ho visto subito che le condizioni erano davvero pessime (…). Spesso ho pensato che fosse meglio in Punjab, ma non potevo tornare indietro»: doveva ripagare il debito, racconta Balbir. Ha poi denunciato il datore di lavoro che per 6 anni l’ha segregato in una roulotte, a volte pagandolo solo 50 o 100 euro al mese, e costringendolo a lavarsi con l’acqua con cui puliva le mucche e a mangiare gli avanzi degli animali gettati nel cassonetto. Per trattenerlo, gli aveva sequestrato i documenti e lo minacciava di morte. Dopo 7 anni di processo, chi l’aveva ridotto in schiavitù è stato condannato a 5 anni di reclusione e a 12mila euro di risarcimento, difficili però da ottenere perché non li ha. Da allora Balbir, dice, si sente libero. Ma lavora ancora duramente (ed è stato licenziato quando hanno scoperto che in passato ha denunciato), a «distanze incolmabili dagli affetti» e sempre in condizioni di sfruttamento.

Le tante inchieste che hanno cercato di smantellare il sistema criminale hanno fallito: il sistema si riforma. Secondo l’ultimo dossier «Agromafie» di Eurispes (2019), il giro d’affari annuo delle mafie nell’agroalimentare italiano è di almeno 24,5 miliardi di euro, circa il 10% del fatturato complessivo criminale del nostro Paese. Tra le varie attività delle agromafie, lo stabilire il prezzo a cui i prodotti devono essere venduti nei mercati. Anche la grande distribuzione impone i prezzi ai produttori, che si rifanno sugli operai agricoli. I braccianti restano «intrappolati in un sistema politico, culturale, economico e normativo che si arricchisce alle spalle di chi è in Italia per bisogni economici», osservano le autrici. Più dura ancora è la situazione delle donne, il cui sfruttamento è anche sessuale. Chi rifiuta scappa, ma senza documenti, che restano chiusi negli uffici (alle braccianti, al loro essere stuprate e molestate oltre che sfruttate dai padroni, Prandi ha dedicato la magistrale inchiesta Oro rosso, Settenove, 2018).

Fonte: Il Sole 24 Ore